Maledetta Trap: ovvero come smettere di giudicare e vivere felici.

Mambolosco è la nuova scommessa in casa Universal (e più nel dettaglio Virgin), sempre che di scommessa si possa parlare visti i numeri che in un anno di attività il rapper italoamericano ha raccolto; cifre che non hanno nulla da invidiare a quelle di altri big già affermati. ” , scrive il noto portale di riferimento all’hip-hop italiano
http://www.rapburger.com a proposito di MamboLosco .
Ora io, da buon vecchio dentro, fino a ieri non sapevo neanche chi fosse questo giovine oriundo che tanto spopola da un paio d’anni a questa parte, neanche a dirlo sul web; fino a che non ci arriva in redazione il videoclip di “Costa Tanto”, in collaborazione con uno dei componenti tutto borselli, marsupi e occhiali da sole, della Dark Polo Gang.
Bene. Aldilà dei gusti e dall’anagrafe, bisogna prendere atto che questo fenomeno della “TRAP” ha ribaltato le leggi del mercato musicale mondiale ed è definitivamente sbarcato, senza più la fenomenologia del “curioso” o del “derivativo”, nel panorama musicale italiano.
E’ un fatto, è una constatazione della quale non si può rimanere inconsapevoli.
A dire il vero, è già da un pezzo che cerco, inizialmente con sforzo immane, successivamente con una certa morbosa curiosità, ora anche con un filo di gasamento durante la (pochissima) attività fisica che svolgo, di inoltrarmi e districarmi nella giungla della Trap Music, ascoltando qua e là brani provenienti da quell’universo così apparentemente lontano.
Perché è più vasto di quanto sembri.
Partiamo con una pillola di storia: la trap nasce agli inizi del duemila nei bassifondi di Atlanta, in Georgia, come una sorta di rap da fattoni, se vogliamo essere spiccioli al limite del semplicistico. Il nome, difatti, è un gioco di parole perfettamente riuscito tra Rap, appunto e le “trap house”, gli stanzoni dei palazzoni abbandonati, occupati dagli squatter e dai pusher, dove i casi umani più svantaggiati si riuniscono per strafarsi di crack, eroina, syrup, metanfetamine, mdma e chi più ne ha più ne metta.
Se sono droghe artigianali, “cucinate” (vale a dire quei veleni terrificanti che i ragazzi più indigenti sintetizzano in maniera homemade), ancora meglio.
Ecco, da questa tipologia di ambiente, nasce un hip hop lento, stralunato, strafottente, assente, apatico e sociopatico. In netto contrasto con la cattiveria contenuta nei testi di chi quel tipo di disagio così estremo lo vive ogni giorno sulla propria pelle, e lo manifesta con una franchezza ed uno slang che in breve tempo ha contraddistinto senza ombra di dubbio la marcata matrice suburbana di tale sound.
Musicalmente, la trap evidenzia e calca molto sulla cadenza monotona e ipnotica, sulla cantilena, sul ripetersi ossessivo, proprio di un qualcosa di lisergico; è logico dunque l’uso di vocoder e autotune non tanto per mascherare l’incapacità canora del performer, bensì per dare un tono amorfo e soporifero ben identificabile.
Non che i trapper siano i primi ad utilizzare basi oniriche e voci contraffatte; sono anni che gente come Lil Jon, Kanye West e ancor prima gli estinti Black Eyed Peas, si prodigano in certi esperimenti sonori, ma la Trap assume come vero e proprio vessillo questi strumenti di comunicazione.
Dal bassifondo ai milioni di dollari il passo è brevissimo, come usa in America, e quindi il fenomeno diventa virale in un batter d’occhio, complice assoluta la diffusione a mezzo social.
La trap sbaraglia il mercato in neanche un decennio, soppiantando qualsiasi altra forma di music fashion e influenzando qualsiasi branca del rap, infilitrandosi nelle hit, fino ad arrivare in cima alle classifiche di mezzo mondo con partecipazioni di altissimo livello e, neanche a dirlo, finendo nel mezzo all’altrettanto abusato Raggaeton, che poi raggaeton non è più, bensì una specie di minestrone iper tamarro di trap e latinoamericano di cattivissimo gusto. Ma la parola “gusto”, in questo caso, è fuori luogo. Qui si parla ESCLUSIVAMENTE di business: un business da miliardi.
Beyoncé e Jay-Z, la coppia più potente del creato, manco fossero Giove e Giunone, hanno tirato fuori un album a nome “The Carters” (il vero cognome della famiglia, come nelle migliori sitcom afroamericane anni ottanta e novanta), che si adegua alla perfezione a questo zeitgeist, essendo esso un disco dalle sonorità trap evidentissime.
Ed è giusto che sia così, d’altronde il ferro và battuto finché è caldo, specialmente se cominci ad avvicinarti ai cinquanta e la trap la suonano ragazzini di diciott’anni che vengono ascoltati da bambini di tredici.
Perché la fruizione ormai è questa, il trend è deciso: la trap è una musica ascoltata dai cosiddetti “giovanissimi”: poco importa se la tematica di base, come dicevamo, è di certo discutibile se rivolta a tale fascia di età.
Ma non c’è problema, a questo pensa il Music Biz, il quale, saggio interprete delle mode, certo, ma ancor di più delle critiche, ha pensato bene di svuotare completamente di significato la musica Trap, rendendola l’ennesimo contenitore di valori ben più digeribili al ceto medio americano: quindi vai giù duro di Lamborghini, Gucci, champagne, vodka da trecento dollari a bottiglia, orologi enormi, piscine,
twerkanti culi enormi e labbra al botox.
Una volta uniformato, è tutto lecito, no?
Questa deriva, senza voler farne una critica, è semplicemente l’ovvio che si mostra senza alcun filtro, arrivando al comico involontario, al demenziale, all’eccesso dell’eccesso.
Ed è così oggi che la scena Trap si è evoluta, mutando le proprie origini da palazzine occupate alla rivalsa super stereotipata di aver fatto un sacco di soldi e di poter esibire, ostentando al limite dell’umana comprensione, accessori proibitivi strusciandosi a delle mega mignottone super siliconate quasi sempre di provenienza latina.
Da questo elegantissimo mix probabilmente deriva l’accoppiata di cui accennavo prima con il raggaeton e altre sonorità del genere.
Passa qualche anno, ed è chiaro che il fenomeno sbarchi in Italia. Perché noi arriviamo dopo, ma arriviamo sempre. Avevamo una lacuna enorme nella scena pop italiana, quella occupata appunto dai giovanissimi. Perché il rap tricolore, per quanto edulcorato e scaricato di contenuti fosse, non bastava; le interpretazioni latinoamericane dei nostri cantanti più in voga (Pausini, Nek, Ferro, Jovanotti), non venivano ben digerite da questi ragazzini; la musica rock ha esaurito la sua emivita gloriosa da più di un decennio; l’indie possiamo dire che è dai diciotto in su; la musica per trentenni la fa Tommaso Paradiso e basta; insomma, i bimbi minkia in cuffia si sparavano Skrillex, la dubstep da gamer e questa stramaledetta Trap, direttamente da Atlanta.
Cosa fare? Le nuove leve del rap, già ben reclutate e asservite alle major, si sono adeguate in men che non si dica, ed ecco spuntare come funghi schiere di trapper in salsa spaghetti che, chi meglio e chi peggio, si ardimentano con una parodia della trap statunitense, fino a diventare monocorde inno dei teenagers di tutto lo Stivale.
Ora, il fenomeno ha scollinato ed è entrato a far parte del cosiddetto Mainstream, così diviene normale vedere Sfera Ebbasta alle Iene, Ghali da Fazio, ecc.
Tutti fanno featuring con i nostri trapper, specialmente chi ha necessità di dare una svolta alla propria carriera o una riverniciata alla propria immagine (Giusy Ferreri, Loredana Berté, Alessandra Amoroso, ecc).
Ma questo è un bene, ripeto, non una critica, perché stiamo parlando ancora di business.
E non sono io a dirlo, ma i trapper stessi, i quali nei loro testi parlano quasi in maniera esclusiva di fare soldi, continuare a far soldi, non smettere mai di fare soldi; comprarsi la Tesla con i proventi della loro musica; sconfiggere gli altri trapper (quelli meno “veri”, quelli che noi ex rocker chiamavamo “poser”, per capirci) a colpi di visualizzazioni su Youtube, sponsorizzazioni su Instagram, like su Facebook e così via, aumentando sempre di più l’importo del bonifico mensile proveniente da endorser e etichette.
Un dato positivo? C’è eccome. Siccome i dischi non si vendono più da un pezzo, è tornata fondamentale la dimensione live. Ecco che questi ragazzotti tatuati in faccia come dei narcos del Nicaragua, si esibiscono sei giorni su sette, anno dopo anno, dovunque. Fanno concerti perché è anche facile farli, sia chiaro: un vocoder, un service, uno che smanetta sulla base. In un sol colpo, abbiamo recuperato la fascia di età altrimenti perduta e gli abbiamo pure fatti muovere in massa manco fosse l’Isola di Wight per minorenni. Frotte di bambini in transumanza con genitori, fratelli grandi, zii e altri tutori, verso l’agognato gig di uno di questi nuovi poeti urbani.
Non è tutto: da qualche tempo si promuove la propria musica con il famoso quanto discusso “in-store”, cioè mettere seduto su una sedia il musicista e fargli firmare il disco, l’accessorio, qualsiasi cosa, dinnanzi alla processione chilometrica di ragazzini sopraggiunti in pellegrinaggio nel negozio di turno.
I primi a farlo furono gli scrittori di best seller, quindi, cari intellettuali, non veniteci fuori con rimostranze, perché seduti in libreria a firmare copie e scrivere dediche sulle tette ci sono stati Philip Roth, Stephen King, John Grisham, Ken Follett e migliaia di altri romanzieri, ormai già trent’anni fa.
Per concludere, se in Italia siamo ancora acerbi nel presentare una Trap all’altezza, di sicuro dobbiamo però accettarla. Tempo fa lessi un articolo sul Rolling Stone dove il giornalista diceva sacrosante parole: non bisogna criticare e denigrare la trap, sennò diventiamo come i nostri pallosissimi genitori, come i dinosauri seduti alle cattedre delle nostre scuole, come quei porporati che inneggiano al peccato, che tanto abbiamo odiato noi, e le generazioni prima di noi, ogni volta che qualcosa di “nuovo” varcava la soglia della realtà ed entrava nel nostro quotidiano ribelle.
Il rock è stato condannato, il punk è stato condannato, il rap è stato condannato, la techno è stata condannata… non cadiamo anche noi in questo errore.
Facciamo piuttosto una critica musicale sana e costruttiva: c’è la musica di merda e la musica bella. Lo stesso vale in tutti i generi di questo mondo; allora facciamolo anche con la trap, perché abbiamo due orecchie e abbastanza ore di Donald Fagen ben impresse nel cervello per essere imparziali e tecnicamente incorruttibili.
A diciott’anni sono andato al mio primo concerto: erano i Cannibal Corpse a Firenze. Posso dunque io puntare il dito e sentenziare che certa musica faccia schifo?
No.
Infatti, con tutto l’impegno del mondo, e non senza qualche sacrificio, ho ascoltato quintali di Trap, sia americana che italiana. Ripeto che in Italia è sempre troppo presto per giudicare e il prodotto è di fattura espressamente commerciale per cui farne una critica di carattere artistico è infattibile. Mentre per quanto concerne la Trap a stelle e strisce, beh, sappiate che dopo lunga e meticolosa cernita, c’è dell’ottima musica.
Certo, si tratta di vere e proprie “combine” atte al business, ma questo deve essere un elemento dato per sottinteso, perché funziona così e noi su Vuemme siamo i primi ad osteggiarlo, cercando sempre di appoggiare e incoraggiare la musica indipendente; ma questo non è il punto da cui imbastire una critica sulla Trap. Perché la trap è un prodotto e quindi bisogna tapparsi il naso e valutare se questo prodotto funziona bene oppure no.
E’ logico che se volessi leggere la Trap con ragione filosofica o romantica ne sarei il primo detrattore, perché sennò in queste sere non saremmo a registrare ogni singola nota del Lucca Jazz Donna, rapiti dal talento e dalla classe di quelle meravigliose interpreti e autrici che rendono il mondo un posto in cui ancora credere; ma, ripeto, non c’entra nulla.
La Trap non deve essere confusa ne strumentalizzata ai fini di una critica banale e scontata, al rifiuto “a priori”, “perché a me piacciono i Dire Stratis, allora quella roba è inascoltabile per forza”.
Non è così che si fa il nostro lavoro.
Allora fidatevi: mettetevi un paio di cuffie Bose senza filo da 120 euro, infilate la tuta stramega griffata, possibilmente lucida, calzate delle sneackers personalizzate costosissime e partite per il vostro jogging atto a smaltire la fattanza della sera prima, dovuta al mix fotonico di Midori e mischioni chimici di entità sospetta.
Quando avete fatto tutto questo, premete play sul vostro Iphone Swaroski limited edition e sparatevi a tutto volume The Weeknd, Travis Scott e 2Chainz, senza ombra di dubbio tre tipi che sono dei MOSTRI a suonare Trap, a renderla qualcosa di inaspettato, diverso, davvero degno di nota.
Poi mi saprete ridire, quanto esalta quella roba!

Maledetta Trap…

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