Si sono spente le luci sul campo da gioco e il pubblico se n’è andato lasciando sulle gradinate pacchetti di patatine, cartacce e bicchieri di plastica; l’odore di dieci uomini enormi e sudati che si sono dati battaglia sfruttando ogni singolo muscolo del loro corpo allo stremo è ancora pungente; le panchine sono piene di Gatorade finiti, asciugamani mézzi, scarpe di riserva mai indossate, con il cartellino ancora attaccato.
I tabelloni degli sponsor sono in standby e ogni tanto qualche led si accende qua e là, come in una stupida nevicata digitale; le reti dei canestri sono immobili perché non c’è un alito di corrente: i condizionatori sono tutti staccati e le porte sono già state chiuse dal vecchio Lou che è bravo a chiudere tutto, perché tutti si fidano di lui. Lou è qui da quarant’anni.
Lo Staples Centre dorme ma domani, quando si sveglierà di nuovo, niente sarà più come prima, perché il Re di quella reggia è morto: Kobe Bryant non c’è più.
“Non puoi marcarmi”, l’avrà detto anche alla morte, schiacciandogli addosso oppure guardandola fissa negli occhi mentre gli mette una tripla, sussurrando “In your face”.
E’ così che deve andarsene Kobe, perché io non riesco a crederla un’evenienza reale, un fatto accaduto, una delle infinite fatalità dell’esistenza che si accettano così, solo perché succedono.
Eh no, con Kobe no; con i tuoi eroi non può andarti giù, non lo digerisci.
E come me, milioni di persone che attonite davanti al TG, a quell’inglorioso spettacolo del dolore che è diventato il TG al giorno d’oggi, apprendono la notizia della morte di un mito, una leggenda, un testimone della tua passione e dei tuoi sogni; sentono che tutto è più fragile anche nelle loro vite, che le certezze stanno a zero, se la morte può marcare Kobe e lui non può svignarsela con una veronica in mezzo a due uomini e con un Alley Oop per Shaq mettere dentro i due punti vittoria, allo scadere dell’ultimo quarto, e tutto torna come prima, in mezzo alle urla di Jack Nicholson a bordo campo incazzato come una iena e sotto lo sguardo attento di Phil Jackson che non si scompone più quando vince, perché con Kobe Bryant è troppo facile…vincere per sempre.