E’ difficile, per me, scrivere a proposito di Lucio Dalla.
Mia madre, nel 1996, per una serie di vicissitudini delle quali non starò a dilungarmi, tentò di suicidarsi sulle note di “Canzone”, singolo appena uscito sotto Natale di quell’anno; avevo 13 anni. Poi ti chiedi come mai non ti adegui con disinvoltura a questo revival degli anni ’90.
Ad ogni modo, Vuemme impone di trattare con rispetto l’opera di quegli artisti che hanno davvero rivoluzionato il mondo della musica e di certo, Lucio Dalla è in quella lista.
Un auto predestinato, un uomo che ha celebrato la sua stessa nascita con la straordinaria 4 Marzo 1943, o meglio la meraviglia della vita, nonostante tutto, nonostante l’amore sia, più o meno, una bestia feroce che lascia fonde ferite lacere.
La passione per l’automobile, per la velocità, per la Formula 1: l’espressione massima del genio umano, la risposta a chi si chiede se l’uomo possa o meno raggiungere la perfezione: sì, senza dubbio alcuno.
E la perfezione si percepisce negli arrangiamenti, nelle orchestrali composizioni così contorte, così complesse, così virtuose, da risultare, lavoro tipico del fuoriclasse, spontanee e quasi casuali.
Ma non è mai così, tutt’altro: è frutto di un lavoro ammorbante, durissimo. Di un sacrificio completo della propria anima, il dono che si fa di se stessi alla propria divinità: la musica.
Lucio Dalla è, in effetti, un dono.
Un dono acustico.
Quel sound che viscerale scorre nella sua gola, in ogni suo originalissimo verso, il marchio di fabbrica della sua creatività smisurata.
Le colonne sonore indimenticabili: una su tutte lunedìfilm per la Rai, il lunedì sera, quando ancora il grande cinema entrava nelle case degli italiani.
E poi..trent’anni di collaborazione live e studio con gli Stadio, una band pazzesca, sottovalutatissima, di una forza e di un carattere così dirompente da riuscire a coesistere con la personalità dotta e grassa di Dalla, proprio come la sua Bologna, che pare oggi si ricordi di lui e lo celebri meritoriamente con una serie di eventi, una statua e perché no, una piazza.
Le creazioni struggenti con Ron, dense di un pathos atroce, malinconico e dolcissimo.
La Repubblica delle Banane con De Gregori: momenti di gloria di una controcultura oggi impensabile ma che, credetemi, è esistita davvero; quando ancora c’era chi aveva tanto, ma tanto, da dire. E come suonavano, sui palchi di tutta Italia, agitando le folle di Indiani Metropolitani che carpivano l’essenza di Cosa sarà meglio di ogni altro.
Ma lo sappiamo tutti, la questione è generazionale.
La scoperta di Bersani durante gli anni della sua maturità artistica, dove Dalla si scoprì finissimo scopritore di talenti e valido mentore per una discreta risma di cantautori imberbi e talentuosi, tutti certificati Bologna DOP.
…e infine il sipario, tragico, improvviso, impietoso. Nessuno, all’assistente di scena, ha detto di chiudere questo maledetto spettacolo. Ma quando sogniamo l’America come Anna e Marco, quando “qualcuno porta una moto per andare in città”, quando passa Nuvolari nella nostra memoria collettiva…quando passeggiamo in una qualsiasi Piazza Grande d’Italia…Lucio è ancora lì con noi ad urlare alla notte.