E’ piuttosto inutile rievocare la carriera di Max Von Sydow ponendosi come obiettivo la stesura di una semplice cronologia degli eventi nella straordinaria longevità artistica di quest’uomo. Così come sarebbe difficile entrare nel dettaglio di ogni periodo che ha contraddistinto il suo sviluppo attoriale.
L’unica cosa che resta da fare, oltre chiaramente all’esprimere tutto il nostro cordogoglio e la nostra profonda contrizione per la scomparsa di una leggenda assoluta, è cercare di comprenderlo nel modo in cui lo abbiamo scoperto, vissuto e infine venerato.
Personaggi del calibro di Max Von Sydow, così lucidi e brillanti fino all’ultimo secondo della loro esistenza, sono elementi rarissimi, volani di un’energia costante e autentici simboli di rinnovamento artistico.
Non lo abbiamo mai visto sedersi sulla propria carriera o sedimentarsi sulla propria esperienza, o godere della figura imponente che di certo lo ammantava o finanche di approfittare della considerazione smisurata, del timore riverenziale, che fin dalla sua affermazione ha sempre suscitato: mai.
Max Von Sydow (un nome che va sempre detto per intero) ha sempre cercato il rinnovamento con nuove sfide, cimentandosi in qualcosa di diverso, di unico, di particolare; fino all’ultimo, fino all’apparizione nel Trono di Spade, dove ha strabiliato il pubblico e la critica rappresentando magistralmente il personaggio del Corvo a Tre Occhi, in una ennesima messa in discussione, in un’ultima analisi e stravolgimento di sé. A novant’anni, provare la televisione, le serie, il giovanissimo mondo dello streaming, può essere dura; quale altezza può portare un Maestro, un decano del cinema, un Antico dell’ottava arte, ad entrare con il rispetto dello studente in un media nuovo dal quale, ripeto, a novant’anni, voler imparare ancora, trarre esperienza, insegnamento; con la transitiva proprietà insita nella sua infinita saggezza, mettendo dunque a disposizione di un’intera produzione tutta la sua sconfinata conoscenza e la sua performance artistica che continuerà a far scuola per secoli.
Un uomo di ghiaccio, un temibile svedese di poche parole ma dal carattere sì quadrato eppure estremamente gradevole. Disponibile, sincero, silenzioso e discreto. Un signore preciso e puntuale, severo e corretto, impetuoso e taciturno. E’ la forza di una figura poliedrica che è stata in grado di non fossilizzarsi sui propri cliché, sui propri personaggi, fatti suoi mediante un carattere e una capacità fuori dal comune, permeati della sua persona ma senza mai esagerare, con il grande rispetto dell’attore teatrale per la figura assegnatali dal copione.
Equilibrato e cosciente, sempre perfettamente calato nei panni di colui che interpreta ma mai assorbito o vinto dall’ego del personaggio.
E’ una sfida complessa che si può vincere solo grazie ad un sodalizio eccezionale con il proprio regista: ed è quello che accadde tra lui e Ingmar Bergman, fin dall’inizio.
Erano gli anni cinquanta e mai sinergia fu più efficace. Una collaborazione speciale, che fece sembrare tutto facile, tutto spontaneo; non lo era. Serviva affiatamento, genio e, da buoni svedesi, regolatezza…non sregolatezza.
Una ricetta quasi alchemica tra uno dei più grandi artisti del Novecento, il regista probabilmente più rappresentativo del cinema europeo di ogni tempo, assieme ad un attore che realmente incarnava il senso della misura e la nordica necessità comunicativa, assumendo le regole di Bergman proprio dentro all’azione.
Nasce così Il Settimo Sigillo , in modo da dare al cinema il proprio caposaldo, la propria sezione aurea.
Max Von Sydow intento in una partita a scacchi con – e non contro, attenzione – la Morte, rievocando un lungo pellegrinaggio in fuga dalla peste e in cerca di se stesso, attraverso le lande di una Svezia feudale così surreale da apparire ad ogni spettatore nient’altro che il proprio tormentato inconscio.
Un decennio di grande cinema in patria fino alla consacrazione mondiale negli anni Settanta dove, da matura e austera figura già di diritto consegnata al gotha cinematografico, viene scritturato per pellicole di primissimo piano, tra le quali ci teniamo particolarmente a segnalare I tre giorni del Condor, probabilmente il miglior film di spionaggio (di sicuro il più realistico) che si sia mai visto e, impossibile non citarlo, L’Esorcista, film con cui il “personaggio” Max Von Sydow entra per sempre nell’immaginario del pubblico terrestre.
Padre Merrin, l’anziano esorcista che non teme il demonio, duro e impassibile, è una guida, un faro per Friedkin e per tutto il cast, una manna dal cielo (scusate la blasfemia) per chi si cimentava in un qualcosa di così nuovo come un horror a tinte demoniache.
Il resto è storia, è grandezza, è straordinaria capacità di interpretare e vivere la vecchiaia, come Cicerone, come Kant: un elogio all’anzianità e ciò che ha da dare al mondo.
Inutile elencare i film in cui prende parte il suo carattere, la sua preponderante figura seguita dalla sua ombra lunghissima e piena di quella glaciale espressività che contiene a fatica un genio impassibile e fulgido al contempo.
Ecco chi era, forse, Max Von Sydow. Ma chi può sapere chi fosse tale misteriosa entità?