Che il 12 Ottobre sia una giornata particolare ormai è un fatto.
Storicamente, un susseguirsi di eventi hanno partecipato, tassello dopo tassello, al compimento della Storia ed hanno contribuito in larghissima parte allo sviluppo umano, sia esso in senso positivo che negativo. L’evoluzione, è noto, non la si raggiunge in un giorno, e molto probabilmente non è certo la società che ci circonda a renderla tale, bensì è la natura che sistema il mondo a suo piacimento e secondo i suoi ancestrali piani, in barba delle nostre convinzioni, credi, religioni e fatalismi.
Tuttavia, l’uomo ha dalla sua una caparbietà ed uno spirito di adattamento ben fuori dal comune, e questo, anche se illusorio perché anch’esso parte del disegno biologico della vita, ci dà perlomeno la sensazione di poter cambiare drasticamente le cose.
Ecco, se vogliamo giocare al cabalista, il 12 ottobre è segno di movimenti tellurici non terrestri, ma umani, sociali, etici e morali.
E perché no, un piccolo contributo ce lo mette pure la musica.
Iniziamo dalla prima e più eclatante questione: Colombo sbarca su un’isoletta, con la Nina; la Pinta e la Santa Maria sono ferme a trecento metri, ancorate. Posa il piede sulla spiaggia di Guanahani, oggi maggiormente nota come San Salvador (ennesimo paradiso distrutto dai villaggi, dai gringos e dalle puttanate turistiche per decerebrati) ed è certo di aver raggiunto le Indie. E’ lo straordinario primo contatto, squisitamente inconsapevole, con le Americhe. Cristoforo il Genovese aveva vinto ben più di quel che credeva, ma non lo sapeva e forse nessuno era pronto a tanto. Beh, che sia finita male per il nostro capitano compatriota, è cosa risaputa, e al giorno d’oggi, dove la meritocrazia è un miraggio, non ci sorprende più nemmeno tanto.
Ma avviciniamoci ad una materia più inerente al mondo Vuemme…è sempre il 12 ottobre, è una giornata tersa e limpida, il vento è poco e le condizioni sono ottimali anche dall’altra parte del mondo, proprio in quel continente, l’America, che Cristoforo Colombo non si era accorto di aver scoperto quattrocento anni prima. L’anno è cruciale, un anno di sfide, di crisi, di speranze ma soprattutto di paure. E’ l’anno in cui il granturco in USA non ne vuol sapere di crescere, in una recessione che non accenna a finire, previo salvataggio miracoloso di Roosevelt con quel New Deal che in tanti oggi rimpiangono. E’ l’anno in cui si consolida la popolarità di Hitler, che di lì a undici mesi vincerà le elezioni con un plebiscito terrificante e il Grande Incubo prenderà definitivamente forma. E’ il 1931.
Ma quel giorno si pensa a qualcosa che invece di dividere i popoli, invece di spezzarli, di incrinare i futuri delle genti, si pensa a qualcosa che avvicini e unisca. Qualcosa di così pacifico da rendere speranza e “redenzione”. Perché alla fine di questo si tratta e si tratterà. Per l’appunto, un altro genio, sempre italiano, sempre homemade, come Guglielmo Marconi, si prodiga in un’impresa dall’enorme impatto scientifico ma ancor di più dall’eccezionale valore umano: dal centro operativo radio di Roma (simile a quello di Pisa di cui abbiamo tristemente parlato su queste pagine qualche tempo fa), il Guglielmone nazionale invia un impulso radio che accende le luci del Cristo Redentore di Sao Paulo, in Brasile.
Dire simbolismo è semplicistico, è un eufemismo.
Tra la aule romane di una democrazia appena nata, alla fine di quella Guerra che tanti sogni di unità e fratellanza ha infranto, si cerca di ripartire da zero. Ripartire dall’ottimismo di Marconi, in quei giorni prima del gran casino, ripartire da un’organizzazione efficiente, ripartire, magari, da una vera democrazia. Una democrazia che garantisca al popolo italiano di non dover mai più rischiare il tanto affabile “uomo forte” che ogni tanto, quando siamo in grave difficoltà, ci piace; così ottusi eppur così teneri come siamo, banchi di sardine in balìa dei flutti della Storia e della contemporaneità. Il Novecento non è stato semplice, quindi come rialzare la testa? Col nostro miglior spirito, con quella ricostruzione che è da brividi, da numeri uno quali siamo, in quei momenti di orgoglio che ci colpiscono solo nei momenti più duri. Ecco che nasce una Repubblica, nasce un periodo storico che culminerà nel boom, nasce tutto ciò che di più bello non poteva crescere da quel letame che era stata la dittatura del Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. A corollario di ciò, ci vorrebbe proprio un inno. Un inno che non sia più quella rottura di coglioni dei Savoia, ma un inno liberale, democratico, sociale ed innovativo.
Appunto, peggior cagata non potevamo tirarla fuori. Un’assemblea costituente che ha scritto la Costituzione più bella del Mondo, il 12 Ottobre del 1946 sceglie l’Inno di Mameli, quel tantino più infelice rispetto a tutto il resto.
Non piace a nessuno, lo sappiamo, ma è pur sempre la colonna sonora della nascita di una nuova Italia, da zero, “ritta sugli stecchi” , crepata nel cuore, devastata in lungo e in largo, violentata nel profondo. Per cui, è qualcosa di più di un brutto, mediocre, inno a marcetta puerile e risorgimentale. E dobbiamo prenderne atto, specialmente noi che della musica ne facciamo un vessillo, un modo per andare avanti.
Siccome le guerre non finiscono mai, specialmente in tempo di pace, a minare il precario equilibrio dell’umanità tutta ci si mette la Guerra Fredda, quella strabiliante gara a chi ce l’ha più lungo durata cinquant’anni tra USA e URSS, le più potenti ottusità del creato. Il 12 Ottobre del 1960 resterà alla storia per un gesto becero.
Questo perché all’epoca non c’era la classe politica che c’è oggi, perché oggi nemmeno ci accorgeremmo di una mossa del genere, tante sono le cafonate e le questioni inopportune che trattano i nostri “rappresentanti” lassù sui loro scranni, da dove vomitano cazzate sui social e coniugano verbi con una temerarietà tale da far impallidire Michele Misseri.
Quel giorno, all’ONU, Nikita Sergeevič Chruščëv, corrieredellaserizzato in Krusciov, presidente del Partito Comunista Sovietico (PCUS), capo supremo del Soviet Supremo, eccetera, eccetera, insomma, il capoccia dei russi brutti, bolscevichi e cattivi, si tolse una scarpa e la batté sul tavolo dinnanzi a lui.
SCANDALO! Macché, si era solo incazzato. Perché la situazione, come al solito in quel periodo così delicato, era un attimino sfuggita di mano. L’allora presidente delle Nazioni Unite, il signor Boland, distrusse il martelletto dalla veemenza con cui colpì il suo seggio nel vano tentativo di ristabilire l’ordine. Beh, se non è musica è cacofonico rumore. E soprattutto, la mitica scarpa sbattuta di Krusciov era stata confezionata da Angelo Litrico, stilista italiano costosissimo che possedeva un vantaggioso e remunerativo appalto con l’Unione Sovietica, disegnando vestiti e calzature a tutti i dirgenti del Partito. Hai capito questi comunisti? Hai capito da dove ha preso lo stile Fausto Bertinotti? Ma alle Frattocchie ci andavano vestiti con la cintura di Hermes, ad imparare la lezione di Ottobre?
E torniamo alla musica, lasciando nel suo tiepido brodo pieno di retorica la nostra amara politica, e mettendo da parte ideali e dogmi. Perché qui si parla di un concetto universale che va oltre le sette note stesse: si parla di pace, di futuro, di anticonformismo, di diritti civili, di PACE! Sì perché il 12 Ottobre del 1971 debutta a Broadway il musical di Andrew Lloyd Webber (sempre sia lodato) “Jesus Christ Superstar” ! Il cast è eccezionale; le voci sono celestiali, rock, potenti, incisive, mai sentite prima; la regia è sublime; la produzione ancora di più; i testi rivoluzionari.
Quel giorno, se a mezzo clero è venuto uno scompenso cardiocircolatorio e se a mezza America è venuto un rigurgito reazionario e puritano gridando allo scandalo e alla maledizione mefistofelica, per tutti gli altri è stata una manna dal cielo.
Un musical meraviglioso, senza tempo, immortale ed immanente come la figura del Cristo che rappresenta nel modo in cui oggi tutti noi più o meno riassumiamo il Messia: un fricchettone!
Evviva JC, sempre! Specialmente se musicato così!
Frattanto i Beatles si erano sciolti e John Lennon era stato ammazzato il 9 Ottobre del 1980. Frattanto erano arrivati gli anni Ottanta con le contraddizioni della Thatcher e di Ronald Reagan (sì, l’attore. Allora vorrà dire che nel 1985 il plutonio lo trovo nella drogheria all’angolo sotto casa). Ma George Harrison mica si dà per vinto, e nel 1987 coverizza una canzone semisconosciuta di James Ray mettendosi nelle abili mani della Electric Light Orchestra: ne uscirà I GOT MY MIND SET ON YOU. Un singolo che ha fatto il giro del mondo e che ha spinto oltreoceano la britannica chitarra di George, l’ex scarafaggio che aveva ritrovato la via del successo. E’ un pezzo così gioioso, allegro, felice e spensierato, tanto da riassumere quel decennio nel migliore dei modi. Eppure non è squallido, non è vacuo, non è empio. Come se avesse preso solo il buono degli anni Ottanta, una sorta di omaggio a chi era davvero entusiasta, nonostante tutto.
Un omaggio che da lì a breve avrebbe dato ragione a tutti, quando si sentì una martellata, poi un’altra, e un’altra ancora, e il muro di Berlino sarebbe caduto per sempre, insieme ad una guerra fredda che aveva davvero fracassato i coglioni al mondo intero. Fanculo a questi maledetti confini.
Fanculo a queste maledette barriere.
Chiudiamo questa ricorrenza così particolare con una notizia spiacevole, ma si sa, non tutto può essere sempre rose e fiori, sennò sarebbe falso.
Probabilmente il più conosciuto ed amato country man d’America, John Denver, all’apice di un successo che lo aveva già posizionato nell’olimpo degli dei con cappello da cowboy, stivali camperos e camicia a quadri, si schianta con un aereo artigianale che si era costruito da solo. Nel cordoglio e nella disperazione, milioni di fans di un uomo che aveva saputo interpretare lo spirito semplice e poetico della campagna americana, dell’America che si sveglia all’alba e che va a letto al tramonto, l’America senza metropoli e coste fighette, l’America di chi ogni giorno non conosce intemperie, malattie e tristezza, l’America di chi è arrivato da lontano eppure ha delle radici fortissime qui, proprio qui, nella LORO amatissima terra. John Denver ha scritto anche delle canzoni bellissime, inutile negarlo. Amore, amicizia, fratellanza, i luoghi dell’infanzia. Insomma, indimenticabile lui e la sua musica.
Morto da artigiano, morto da avventuriero, morto da temerario.
Se ne andò così’ la cinquantunesima stella della bandiera americana.
Alla fine di questo viaggio particolare dentro il giorno 12 ottobre che tanto mi ha sempre affascinato e leggermente spaventato, mi chiedo: è tutto collegato?
Sì lo so, sembra la più banale delle speculazioni, ma non voglio che venga presa come tale.
La mia è una domanda sincera nei confronti della nostra società, della nostra Storia, della nostra specie. Perché se tutto è correlato, concatenato, e così sembra, lungo un filo di eventi e cause ed effetti, allora forse un senso c’è. Un senso c’è nel soffrire, nel piangere, nelle delusioni, nei fallimenti che ogni giorno attanagliano senza pietà la vita di tutti noi. E quando arriva un successo allora è merito di questo grande sforzo comune, che si tramanda nel nostro DNA, volto a farci risalire la china, sfidando qualcosa di imbattibile come la morte, la fine di tutto.
Trasmettere ciò che facciamo ora nel futuro, lasciare la nostra memoria ai posteri.
Lo diceva Ugo Foscolo, mica io, che quello è l’unico modo…
Per essere immortali.