«Gli alberi del sud hanno un frutto strano, sangue sulle foglie e nelle radici, un corpo nero penzola nella brezza del sud, un frutto strano che pende dai pioppi…»
Billie Holiday – Strange Fruit
1939
scritta da Albert Meeropol
Troppo breve come tutto ciò che risplende. L’intensa fiamma di una candela che si consuma veloce, si scioglie nel dolore e arde nel tormento.
Billie Holiday accompagna ancora chi l’ascolta nella sua discesa negli abissi dell’anima, dopo sessantuno anni da quando troppo giovane, troppo presto, troppo tutto, se n’è andata.
Come lo fa? Con la sua voce, che col passare degli anni della sua intensa e devastata carriera diventa sempre più amara, malinconica, spezzata; eppure gigante, immensa, inarrivabile, fino all’ultimo giorno.
Perché l’esperienza e le cicatrici che caratterizzano l’evolversi del timbro di Billie Holiday sono l’essenza della sua umanità feroce, della sua fragilità fortissima.
L’ossimoro di una donna che è nata sotto il segno dell’iniquità dell’uomo. Afroamericana figlia di una ballerina di tredici anni e di un suonatore di benjo di sedici – lui scomparso a far musica – è cresciuta a Baltimora con una zia bastarda e infame mentre mamma andava a pulire le scale nei quartieri popolari di New York, a tre ore di treno da casa. Quale casa? Una casa dove fu stuprata a dieci anni, la prima di tante, troppe volte.
La musica scorre nelle sue vene, come farà l’eroina più tardi, l’elisir per dimenticare.
Nemmeno maggiorenne si prostituisce in diversi locali dove forse avrebbe preferito ballare, ma non era tagliata per la danza, per niente.
E allora una maitresse gentile e tanto grassa da non passare dalle porte le faceva ascoltare i dischi di Louis Armstrong e di Bessie Smith, perché Eleanora (ancora non si chiamava Billie, nome che prese in seguito, quando si innamorò perdutamente di Billie “The American Beauty” Dove e dei suoi patinati film densi di utopia) era brava e non prendeva le mance dai clienti, si faceva solo dare lo stipendio da Big Mama.
Poi la retata, le luci blu, le manganellate e le manette. Quattro mesi dopo esce dal gabbio e decide che la puttana non è la vita più sicura per una ragazza che seppur così giovane si è già rotta le palle del dolore.
Dovrà ancora patire tanto, perché i ricordi saranno spilli nel cuore di una creatura eterea.
Prova di nuovo a ballare, ma sarà tutto inutile.
In un locale dove era stata ingaggiata per un provino – risultato disastroso – prende il microfono e canta i suoi idoli, canta la sua disperazione, canta la sua vita: il risultato è una faccia sbalordita del titolare, un contratto e qualche mascella da rimettere in posizione. Nessuno aveva mai sentito niente di simile.
E’ l’inizio di un’altra tempesta: quella del successo. Quello sporco, vigliacco successo.
Che cosa fa morire una persona?
Che cosa fa morire una cantante jazz dall’anima blues?
Che cosa fa morire Billie Holiday?
Intanto c’è chi la fa vivere: un contratto discografico, uno studio dove cantare nel barattolo e registrare; John Hammond e suo cognato Benny Goodman come angeli custodi.
In questo caso, almeno, le cose hanno girato bene.
La notte è lunga e le canzoni non piacciono.
Ma nel 1936 Billie, che ormai cantava ed incantava dovunque a New York, fa amicizia con i più grandi: Lester Young e Artie Shaw.
Con Lester nasce un affetto grande, immenso, platonico e sublime. Nel senso che sublima la perfezione e il dolore di due grandi esseri umani, così soli nella loro stratosfera di artisti impossibili.
Lester suona tutto, specialmente la tromba, e la suona così da dio che la sua musica diventerà “cool”; eh già, il Cool Jazz è roba sua, tutta farina del suo sacco. Billie lo chiama “Prez”, the President, il presidente, e si vorranno bene fino alla fine.
Artie è bianco, e già questo è un bel biglietto da visita per fare un salto di qualità necessario.
Artie è buono, intelligente, un grandissimo musicista e un astuto imprenditore: lo sa bene che Billie è una voce unica che vale tanto oro quante note gli escono dalla bocca, ed è anche tanto ingenua. Ma Artie Shaw è un uomo corretto, come non se ne trovano più, un vero gentiluomo, e non si approfitterà mai di Billie.
Altri si prenderanno gioco di lei, la distruggeranno, la rovineranno, la picchieranno, la umilieranno, in un turbine di matrimoni fatti di odio e non di amore, . Perché le donne come Eleanore sono calamite di dolore e di atrocità.
Nessuno avrebbe dovuto intaccare la purezza di una gioiello incrinato e brillante come la luce del sole. Le tenebre invece la pervadono e l’alcol presto diventerà il suo unico amico; Artie e Lester non possono far altro che assistere inermi al disfacimento della vita della loro musa ispiratrice.
Nel 1939 il successo era clamoroso e tutti volevano Billie Holiday nei locali per bianchi dove suonava Artie Shaw. Ma Billie, come tutti i neri, doveva passare da dietro, dall’ingresso separato e starsene chiusa in camerino fino a che non saliva sul palco e poi sparire subito.
Se ad una vita del genere ci aggiungi la più selvaggia segregazione razziale, la dignità calpestata, forse riesci a capire perché una persona si autodistrugga.
Una tortura del genere, non vedi l’ora che finisca, e fai il possibile perché finisca.
Così è l’anima del blues.
Così suona la complessità del jazz.
E quell’anno, l’ultimo in cui la voce di Billie era raggiante, nasce un brano che farà i conti con la storia: Strange Fruit.
Narra la storia di uno strano frutto che penzola da un pioppo. C’è sangue sulle foglie cadute d’autunno e sulle grosse bitorzolute radici possenti che emergono dal terreno; è un corpo scuro attaccato a una corda per il collo. E’ l’ennesimo cadavere vittima dell’odio dell’uomo bianco.
Artie e Billie dovranno chiedere il permesso ogni volta che vorranno suonare quel pezzo perché potrebbe urtare la sensibilità dei bianchi newyorchesi tanto radical chic da ascoltare il jazz.
Che schifo di sogno è il sogno americano.
Dopo la guerra, che ha fermato il mondo intero per un po’, anche i teatri riaprono e pure i locali.
E Billie torna a cantare.
Nel 1947 la sua voce è infranta come uno specchio in mille pezzi. Whiskey e brown sugar ogni notte non riescono a tenere a bada i fantasmi che si addensano come nubi nere sopra la sua testa.
E ogni canzone è un grido disperato di dolore; ogni nota un gemito, ogni battuta un passo verso la sconfitta di chi ha troppa bellezza dentro per reggere la crudeltà del mondo.
Saranno grandi le collaborazioni, grandissime.
Poi, ad uno ad uno, moriranno tutti, più o meno.
Una tournée in Europa le darà l’ultimo slancio, davanti ad un pubblico acculturato e sensibile, selezionato con cura dal fidato Mal Waldon, un uomo meraviglioso, aiutante fedele e sostegno fino all’ultimo giorno.
Muore anche Lester e all’improvviso crolla anche quel poco di universo che rimaneva attaccato al cielo.
La cirrosi, il rifiuto, la mancata accettazione.
E’ il momento del sipario.
Le luci si spengono e mentre il ragazzo spazza via le cicche e le cartacce tra i tavoli, timidamente una ragazzina abbassa l’asta del microfono. Ha una gardenia bianca tra i capelli. Apre bocca e cambia il mondo, ma lei non lo sa.
Ladies and Gentlemen…LADY DAY!