Un secolo. Un secolo è trascorso, dal quel Novecento che si allontana sempre di più, lasciando dietro di sé una scia di manifestazioni umane tra le più straordinarie e cruente della storia. Cento anni in cui tutto è cambiato, in cui la vita è stata irrimediabilmente sconvolta, certamente in misura maggiore rispetto ai cinque/seicento anni precedenti, quando lo spartiacque fu la scoperta delle Americhe.
Il 20 Gennaio del 1920 nasceva Federico Fellini, il Maestro che ha dato vita alla “fantarealtà” , uno dei massimi esponenti di quell’arte così sublime e rotonda che risulta essere il cinema, il cinema che attinge alla commedia dell’arte, il cinema che si adatta all’immaginario e viceversa; in una semplice locuzione: il “cinema italiano”.
Fellini riassume l’identità nazionale nel mondo attraverso l’immagine di una provincia che ricostruisce se stessa e il proprio essere sulle macerie della guerra; riassume la neonata Repubblica Italiana mediante il carattere più nobile degli ultimi, dei miserabili, donando dignità nell’emarginazione e immaginazione nel dolore.
Durante la gioventù è la fantasia che si trasforma in irrefrenabile voglia di storie; la leva con cui un diciottenne Fellini verrà sospinto a raggiungere Roma laddove prenderà la vita dell’uomo e la tradurrà in satira, umorismo e vignette. I primi passi nel mondo dell’editoria Fellini li muove con Vito De Bellis, presso la redazione del Marc’Aurelio, giornale irriverente capitolino, e qui raggiunge il trampolino verso lo spettacolo, una porta che gli viene aperta dalla Radio, dove il Maestro allora poco più che ventenne si cimenterà nelle prime sceneggiature per racconti e rubriche. Proprio in radio farà conoscenza con l’attrice Giulietta Masina e non la lascerà mai più andare, rimarrà dunque egli rapito dalla minuta essenza trasognata e ingenua di quella ragazza che rimarrà tale fino alla fine; la loro sarà un’unione sia professionale che sentimentale, sarà una prova tangibile che quel sogno per tutta la vita ricercato nella quotidianità da Fellini, può e deve essere raggiunto, vissuto e realizzato appieno.
Roberto Rossellini, all’epoca indiscusso sovrano della celluloide, recluta Fellini per scrivere due sceneggiature che riveleranno le capacità assolute e impressionanti del giovane autore riminese nel raccontare storie immense, trasudanti emozioni, eterne e verissime.
E’ il 1946, la Guerra è appena finita e in Italia nasce, sulle macerie di una distruzione annunciata, il Neorealismo. Un mondo forse complesso per un sognatore che tutto vede filtrato dalla “luce della luna” ma tant’è, la coscienza finissima di Fellini è tale da poter arrivare a comprendere il vero con la poesia del genio. Sebbene non visto benissimo dai contemporanei Visconti e De Sica, i portavessillo del neorealismo, la firma è di Fellini sulle sceneggiature di “Paisà” e di “Roma città aperta”, i capolavori massimi del genere nostrano che affonda le proprie più profonde ispirazioni nei ricordi freschi e dolorosi della Guerra assieme alla potenza espressiva della realtà cotta e riarsa dal sole siciliano di Verga.
Sono maturi i tempi di una emancipazione artistica e di un proprio cammino.
Fellini spicca il volo dietro la macchina da presa nel 1950; dapprima in collaborazione con Lattuada esordisce con “Luci del varietà” dove si trova subito il marchio di fabbrica felliniano, riassumibile con la frase “Il mondo dell’avanspettacolo e la sua decadenza” .
Perché in futuro, spesso si tornerà a parlare di sogni infranti, carrozzoni patetici; certo di decadenza, sia essa interiore o di costumi.
Ma il vero esordio, la prima di Federico Fellini, è “Lo Sceicco Bianco” con Alberto Sordi, per le musiche di Nino Rota, con cui inizia un sodalizio eccezionale così come nel caso di Pinelli, l’uomo che riuscirà, per vent’anni, a tradurre le immagini oniriche di Fellini in copioni precisi e pennellati alla perfezione. Con l’avvento di questo film, si instaura un’altra collaborazione preziosa e duratura, quella con Ennio Flaiano, un maestro della parola, un gigante dell’espressione letteraria, che tra cinema e teatro regalerà emozioni infinite al pubblico italiano ed internazionale.
Eppure “Lo sceicco bianco” non piacerà, tanto da mettere in discussione il rapporto appena nato tra il regista e Sordi, che offre una parte eccellente ma che finirà travolto dalle critiche come tutto il resto degli aspetti legati a questo film.
Fellini non si perde certo d’animo e a ritmo serratissimo – un film all’anno quasi come usa a Hollywood – esce nel 1953 “I Vitelloni” e nel 1954 “La Strada”.
In questo caso, il successo sarà strepitoso e la resa artistica risulterà tra le più alte raggiunte dal cineasta riminese.
Ne “I Vitelloni” c’è tutta la provincia romagnola delle origini e della gioventù di Fellini; la noia, la mancanza di obiettivi certi, la totale insicurezza nei confronti del mondo, il tutto combattuto con la spavalderia di chi non vuole, o non può, guardare al futuro.
Per quanto riguarda “La Strada” non ci sono invece parole sufficienti a descrivere questo capolavoro. Primo esempio di soggetto “felliniano” per definizione (parola che verrà usata ed abusata, che diverrà parte del vocabolario comune mondiale, per descrivere il malinconico ed onirico universo esteriore ed interiore dell’uomo), il lungometraggio è una perfetta summa tra sogno e realtà, in un viaggio on the road che segue l’itinerante spettacolo di circensi improbabili dove le storie, le vite ma soprattutto il carattere dei personaggi danno la cifra dello stato d’estasi creativa di Fellini.
Anthony Quinn,grandissimo attore dalla sensibilità unica, accettò ben volentieri di rinunciare alle mastodontiche produzioni statunitensi per “ridimensionarsi” a livello di strutture ma segnando la sua carriera con una performance di altissimo livello estetico, artistico ed intellettuale.
In una serie altalenante di risultati ma senza mai mollare la macchina da presa per un secondo, la fervente produzione di Fellini tocca l’apice del successo mondiale con il film che forse meno lo rappresenta ma che di certo lo identifica a qualunque uomo che cammini su questa Terra: “La Dolce Vita” .
Anita Ekberg e Marcello Mastroianni sono i protagonisti di un film completamente diverso; esso rappresenta non solo una storia d’amore pittoresca, che funge solo da pretesto narrativo, bensì una dura critica, elegantissima e mai debordante, alla moderna borghesia appena nata e già spoglia di valori, effetto del boom economico post ricostruzione.
Le immagini di Roma, il bagno nella Fontana, le scorrazzate in Vespa, i vestiti, tutto divenne invece estremamente “pop”, esportando oltre i confini lo “stile italiano” e regalando con questo piacevole malinteso lustro all’Italia tutta.
Quando un regista come Fellini mette in scena le proprie storie viene da pensare, in ogni circostanza, che si tratti di situazioni autobiografiche. Secondo il Maestro, niente di più sbagliato. Le trame dei suoi film sono certamente personali, intime e profondamente legate al regista, ma sono tutte frutto della sua immaginazione, della sua fantasia; poco importa se poi vengono trasposte in ambienti familiari o tipici.
Mi sovviene il grande omaggio a Fellini, anche se non dichiarato, di Tim Burton, con il suo Big Fish. La fantasia e la realtà si sovrappongono e danno vita ad un universo unico e a sé stante, dove le figure della propria esperienza assumono la forma che preferiscono in un’autogestione emotiva così straripante da ricreare da zero un universo immaginifico fatto solo e soltanto di sogni. Sogni che sono più reali della realtà stessa.
E’ il concetto del realismo magico di Borges, di Marquez, dei grandi autori colombiani, cileni, argentini e brasiliani del secondo Novecento. La rivoluzione interiore per comprendere la verità cronologica delle rivoluzioni esterne a noi. La politica che entra nel tessuto onirico e crea forme e azioni che si nutrono del nostro vissuto e si collocano in una dimensione adatta a spiegarci la realtà con le parole della fantasia.
Per costruire questo universo serve un mezzo, un amuleto che trasporti la volontà autobiografica dell’autore nella “fiction” più pura, là, sul set, dove i mondi dell’immaginazione prendono vita: ecco che il regista ha bisogno di un suo “tramite”; per Fellini quest’uomo era Marcello Mastroianni.
Vuoi che fosse un attore straordinario, vuoi che fosse un uomo dal carisma e dal trasporto unici e irripetibili, vuoi che fosse un artista dalla grande intelligenza, Mastroianni è stato il messaggero dell’anima di Fellini.
Indubbiamente, uno dei sodalizi più efficaci e struggenti della storia del cinema.
Quando, nel 1963, Fellini ritornò da un periodo di svago per poter tenere sotto controllo la grande depressione che per tutta la sua vita ha sconvolto ogni suo giorno, come la più terribile delle maledizioni, egli aveva in testa un film.
Ma il male oscuro non se ne va mai e la sua mente era messa a dura prova così che mentre passavano i giorni, l’idea svaniva lentamente ma inesorabilmente. Dimenticava, Fellini. Perdeva l’obiettivo, la trama, i personaggi, il senso stesso.
E un giorno, mentre si festeggiava a bordo set il compleanno di un macchinista, Fellini disse ad un uomo che il film che stavano per girare, semplicemente, non c’era; che tutto era confuso; che aveva dimenticato .
D’un tratto capì: venne la luce del genio in suo aiuto, e gli occhi si illuminarono di essa.
La storia c’era, eccome!
“Il film parla di un regista che voleva fare un film ma non si ricorda più quale” .
Perfetto.
Esce 8 1/2 e il cinema italiano avrà finalmente il suo capolavoro definitivo.
Fellini prosegue la sua carriera con questa altalenante situazione di alti e bassi e così, due anni dopo il non plus ultra toccato con Otto e Mezzo, arriva nelle sale “Giulietta degli Spiriti”, oggi certamente rivalutato e giustamente annoverato tra le pellicole più rappresentative e intime del regista, ma all’epoca bistrattato, aspramente criticato e involuto.
Da qui un punto di svolta, forse una necessità fisiologica tipica dei sodalizi artistici: il rapporto tra Flaiano e quasi tutta la sua squadra di fedelissimi si incrina e niente potrà più tornare come prima; la depressione è ai massimi livelli, la vita è crudele con chi è malato della malattia che colpisce il genio.
Entro il 1968 la troupe è completamente rinnovata.
Con Fellini Satyricon, uscito lo stesso anno, il successo torna e non andrà più via.
Le asperità sono alle spalle.
Si capisce che, con una situazione serena e un successo planetario, spesso un regista entra in una fase calante o perlomeno inizi a “vivere di rendita”, ma per Fellini non è così: è necessario lasciare un altro segno indelebile nella storia cinematografica.
Occorre dare finalmente vita a tutto l’universo onirico che da tutta la vita popola la mente di Fellini. Ogni personaggio deve avere la sua gloria, ogni luogo deve essere conosciuto dal mondo intero, ogni emozione e ogni segreto devono essere svelati.
“Amarcord” , nel 1973, rappresenta la memoria .
Si esplorano le “città dell’Anima” (il Circo, Roma, Rimini) e ci addentriamo in qualcosa che se Fellini ci dice non sia autobiografico, di certo è profondamente legato a tutta la vita e a ciascun ricordo del Maestro romagnolo.
Il terzo oscar per il miglior film straniero, la consacrazione a divinità della celluloide, la certezza che l’Italia annoveri tra le sue fila un personaggio unico e impossibile, un uomo che ha reso tangibile la famosa espressione con cui si identifica il cinema come la “macchina dei sogni”.
Verso il tramonto, Fellini ha continuato a regalare un cinema di alto livello, non ha mai deluso e il suo successo è stato sempre pari alla sua grandezza.
Negli ultimi anni si avvicinò a Paolo Villaggio e a Roberto Benigni, con cui collaborò con diversi progetti, anche televisivi, trovando in loro quel lato drammatico e onirico, malinconico e stralunato, che altri non avevano notato, conferendo la dovuta grazia a due attori decisamente capaci e acuti, bravi a trecentosessanta gradi. Ma è risaputo che per giocare bene ci vuole anche un ottimo allenatore. E Fellini ha sempre valorizzato al massimo i suoi attori, regalandogli i personaggi della sua fervida e unica immaginazione.
Indimenticabile lo Zio Teo interpretato da Ciccio Ingrassia in Amarcord; un esempio su tutti.
Oggi lo dice qualunque regista, da Spielberg a Ron Howard, da Clint Eastwood a George Lucas, da Martin Scorsese a JJ Abrams: il cinema è la “macchina dei sogni”…proprio quello che intendeva Federico Fellini.