Ciò che tutti ormai sanno è che l’8 Marzo non c’è niente da festeggiare, checché se ne dica. Ciò che ad oggi è cosa risaputa è che si adotta tale giorno per ricordare le vittime dello sfruttamento del lavoro femminile da parte di una società maschilista e patriarcale, in uno degli episodi più tetri di tale sistema economico e sociale: il rogo di un’industria tessile nel quale le donne, per “evitare distrazioni”, venivano rinchiuse a lavorare dentro ad uno stanzone, così da non poter fuggire e morire arse vive dalle fiamme, uccise dalla mentalità degli uomini, che tutto erano fuorché tali.
Ora, su di una base composta di frasi fatte, buoni propositi, slogan, avvenimenti storici straconosciuti e altre banalità del genere, non si costruisce nulla di sano.
Oggi, stracolmi di diffidenza e paura, depressi e adirati, per non dire più semplicemente terrorizzati da questo virus che incombe, siamo ben poco propensi all’uso delle celebrazioni, ed è un bene, sotto certi aspetti. Perché la macchinosa e capziosa tendenza a festeggiare un certo tipo di emancipazione è sempre questione rovente, atta più allo scontro e alla strumentalizzazione che ala concretezza e al vento del cambiamento; il positivismo mal si contrappone al materialismo.
Ecco, indubbia, la riposta di Simone De Beauvoir alla festa della donna:
“Donne non si nasce: si diventa” .Esistenzialista come sempre, non ci sorprende, ma un fatto è certo: ha ragione da vendere. Perché i diritti non son retaggi ne di nascita ne ereditari: i diritti si conquistano con le unghie e con i denti e ciò vale per qualsiasi fottuta minoranza abbia dovuto scontrarsi con il sanissimo principio della democrazia greca tale per cui se sei in svantaggio numerico, prendi le gambe e te ne vai dall Polis con buona pace dei tuoi diritti del cazzo. Marcisci all’inferno e non rompere le palle all’illuminata Agorà di maggioranza, quindi nella ragione.
Non è proprio così, ma almeno è un concetto semplificato e chiaro, in quest’epoca di tweet al vitriolo e di panico un tanto al chilo.
Ebbene, le donne si rendono donne quando si trasformano in donne, cioè si emancipano, quindi si liberano dal vincolo biblico che le attanaglia alla misoginia perentoria e falsa che imbeve la mentalità umana tutta ancora oggi, come nell’età del Bronzo, poco cambia.
Eppure la filosofia è donna; così come in filosofia, a Padova, si laureò la prima donna al mondo, nel 1678: si chiamava Elena Lucrezia Corner Piscopia (per saperne di più, quindi, cazzo, cliccateci subito, https://www.venetoinside.com/it/aneddoti-e-curiosita/post/elena-lucrezia-corner-piscopia-donna-laureata/ ) e sarei per proporre questo nome come monito per mille generazioni avvenire. Nessuno che la conosca, nel mondo odierno, ed è solo un altro dei tanti mali della nostra società. Intitolate scuole, atenei, piazze, fontane, vie, asteroidi e satelliti, a questa persona.
Nell’istante in cui nel 1917 le operaie parteciparono alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia mettendosi al pari dei rivoluzionari maschi, tutto divenne 8 Marzo sul serio. Non alla festa per isteriche nel locale strafigo con quattro impotenti spogliarellisti. Quello è degrado sociale; verognoso sminuirsi di una figura che ha marturato millenni prima di giungere ai sofferti traguardi che ha raggiunto.
Quello è svilire ed è peggio del patriarcato. Perché non c’è cosa peggiore di una donna che si crogiola nella sua inferiorità maledetta. Perché in fondo, l’ignoranza parte da dentro ad una comunità. Lo svantaggio sta tutto lì.
E quale sarebbe l’inferiorità? E’ l’aridità, la mancanza di ideali; di obiettivi comuni e individuali che siano in una certa misura complementari e condivisi.
Tante, troppe persone, lo vediamo ogni giorno per ogni cosa, non condividono proprio un cazzo e non hanno consapevolezza, interesse, certezze, obiettivi e, cosa peggiore di tutte, coscienza.
Questa cosa che forse esiste o forse no, dipende dalla scuola epistemiologica, ma sempre e comunque qualcosa dentro di noi che ci pone di fronte ad una scelta e ce ne dà motivo, c’è.
E una donna che combatte ha coscienza. Una donna che non combatte non ne ha.
Naturalmente, si parla di scelte. Laddove la scelta non c’è, è terrorismo. Il patriarcato è una forma vile di delitto sociale, una strage silente che colpisce le figure più deboli e inermi. E’ il male assoluto. In quel caso di certo le colpe delle donne non esistono: esiste solo lo schifo per coloro che attuano da millenni una scellerata pratica, quasi sempre di comodo stampo religioso, violenta e infame.
Pusillanimi piccoli esseri informi: micorscopiche larve sterili.
Salviamoci con l’uguaglianza, con il rispetto, con qualcosa di tangibile.
Perché tante belle parole non hanno mai salvato nessuno: una ragazza che si butta sotto a un cavallo in corsa all’ippodromo, per mettere la bandierina delle Suffragette addosso al fantino, morendo per esprimere la volontà condivisa e sacrosanta di poter votare, invece cambia – incontrovertibilmente – tutto.
Per sempre.