«Per accontentare i nostri alleati, è stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. (…) Se sono stato informato correttamente quest’ordine diventa efficace immediatamente.»
(9 novembre 1989, Günter Schabowski, Membro del Politburo del Partito Socialista Unitario della Germania e Ministro della Propaganda della DDR)
Tale fu la risposta di Schabowksi alla domanda del corrispondente ANSA Riccardo Ehrman, il quale volle sapere da quando sarebbe entrata in vigore la norma per cui le barriere fino a quel giorno invalicabili dall’Est all’Ovest del Mondo sarebbero state abbattute.
Il messaggio fu recepito come un subito, che, senza ombra di dubbio, destò un fervore sempre più crescente e debordante nell’aula laddove si declinava, parola dopo parola, la conferenza stampa indetta dagli alti rappresentanti della DDR per chiarire la ormai improcrastinabile questione dei confini.
Questo subito ci mise un istante a diffondersi in tutta Berlino, in barba alle tecnologie attuali, in un tam tam di passaparola epidemico (oggi si direbbe virale), trasportando la contesa ex-capitale tedesca in un caos mai visto prima.
Trentamila persone, in un batter d’occhio, si erano già riversate ai confini con Berlino Ovest; a notte fonda saranno trecentomila; nei giorni e mesi successivi si parlerà di uno scambio di più di due milioni di persone nella ormai riunita città simbolo della concordia, non più della divisione.
Si temeva un disordine confuso, pericoloso, perfino violento: niente di tutto ciò avvenne.
Il caos suddetto fu festoso, gioioso, spasimante d’amore e gaudio.
Per tutta la notte, il Muro di Berlino fu varcato, preso a mazzate, scavalcato, sbriciolato, con la pace nel cuore.
Con il sogno diventato realtà di poter abbracciare nuovamente i propri fratelli.
26 anni prima, il 26 Giugno del 1963, l’allora Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, si recò a Berlino Ovest e dinnanzi ad una folla di “spasimanti d’amore fraterno” disse:
“La libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero. Quando tutti saranno liberi, allora immaginiamo — possiamo vedere quel giorno quando questa città come una sola e questo paese, come il grande continente europeo, sarà in un mondo in pace e pieno di speranza. Quando quel giorno finalmente arriverà, e arriverà, la gente di Berlino Ovest sarà orgogliosa del fatto di essere stata al fronte per quasi due decenni.
Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire “Ich bin ein Berliner”.
JFK centrò in pieno la questione cruciale di tutto il ragionamento: siamo o non siamo uomini liberi? Siamo o non siamo persone tutte nate con pari dignità e diritti? Siamo o non siamo una specie che cammina sotto lo stesso sole e riposa sotto le stesse stelle?
Sebbene durante tutto l’arco della cronistoria umana si faccia il possibile per negare queste domande, infine è dunque questa la verità: sì, siamo tutti Berlinesi.
Perché ovunque ci troviamo, abbiamo l’istinto di spezzare le catene con cui la società ci stringe e correre, correre fino allo stremo, verso la libertà.
Torniamo al 9 Novembre del 1989, quando i berlinesi corsero per davvero e sfondarono non solo il Muro di Berlino, ma anche il muro della discordia, dello spettro globale di una guerra vigliacca e inutile, del silenzio, del sospetto, della disumana coercizione attuata fino a quel giorno da un pugno di potenti che hanno giocato con gli uomini come pedine, ammassati in questa o quella zona della Terra, il nostro pianeta dove siamo nati per camminarci sopra ovunque ci pare e piaccia, costretti a rimanere inermi, impotenti e controllati, giorno dopo giorno, alla mercé dell’interesse e della testardaggine.
La malvagità umana. Strappare famiglie; spiare fratelli; condannare arbitrariamente chi manifesta il proprio pensiero; torturare fisicamente e psicologicamente il prossimo; impedire; proibire; osteggiare. Infine punire.
Sono stati 145 gli esseri umani ammazzati perché hanno cercato di scavalcare il muro.
Sono più di mille coloro che si sono suicidati in seguito al vuoto creato attorno a loro da parte del codardo lavoro della STASI, la polizia politica della DDR. Minacciando i parenti e gli amici, essi venivano abbandonati al proprio destino, lasciati soli, continuamente spiati e monitorati, impossibilitati dalla burocrazia anche per comprarsi un pezzo di pane, licenziati dal proprio posto di lavoro, ostracizzati da qualsiasi momento sociale, additati nelle piazze, fotografati nei parchi, messi di mezzo in affari di cui non sapevano niente, e loro, ignari e innocenti, portati allo stremo, lacerati nel profondo perché probabili dissidenti.
Queste persone non si sono tolte la vita; sono state uccise da un regime ottuso tanto quanto diabolico.
Impensabile ma è così. Guardatevi “Le Vite degli Altri” di Florian Henckel; un film che narra nel dettaglio di come, quando tutto era quasi perduto (e il Politburo della DDR lo sapeva di essere agli sgoccioli), veniva negata l’esistenza al popolo tedesco dell’Est.
Negata perché oltraggiata, martoriata, vilipesa.
Ma ciò che accadeva intorno dispiegava le vele verso un viaggio ben più luminoso, perché ogni tanto, anche la Storia vera ha un lieto fine, o almeno, ci prova.
In Ungheria già dal 1987 erano stati abbattuti i blocchi alle frontiere e lungo il confine con l’Europa occidentale; a migliaia, in un lirico esodo di libertà, fuggivano dalla Germania Est passando dalle terre magiare. In Cecoslovacchia, la tolleranza ai confini aumentava giorno dopo giorno e la morsa si faceva sempre più lenta.
Infine, Gorbaciov parlò chiaro, così chiaro che Honecker, il leader assoluto della DDR, ostinato e irragionevole, si dimise, complice anche la sua malattia, troppo affaticato per continuare a combattere in favore di quell’utopia comunista ormai ridotta a derelitta chimera ferita a morte dal tempo che passa.
Il Segretario del PCUS, uno degli uomini più intelligenti e lungimiranti che l’Unione Sovietica abbia mai avuto la fortuna di annoverare tra le sue fila, con la sua caratteristica voglia sulla fronte e con il suo sguardo interiore proiettato verso il futuro, perfettamente cosciente di ciò che il mondo stava per riservare alle terre aldilà della Cortina di Ferro, si pronunciò così, criptico e chiarissimo al contempo:
“Niente ci sorprende più. Siamo preparati a tutto e abbiamo anche imparato molto. Ad esempio come avviare ed attuare programmi di riforma e come difendere la nostra politica.
Penso che i pericoli minaccino solo coloro che non sanno far fronte alle sfide della vita!”.
Gorbaciov aveva capito che cambiare era l’unica cosa fattibile. Ben peggiori questioni lo attanagliavano a Mosca e l’URSS si trovava nella posizione più delicata cui la storia l’avesse mai posta di fronte. Era il momento del “disgelo”, di quella che da lì a breve si annunciò come Perestrojka. E che culminò con la fine dell’Unione Sovietica.
Se questi erano i presupposti lassù, nell’Olimpo del comunismo mondiale, cosa ne sarebbe stato degli stati satellite e del loro destino?
Cosa ne sarebbe stato di Berlino?
Lo abbiamo visto negli occhi della gente, con la loro azione pacifica e monumentale. Lo abbiamo visto con l’impotenza dei vertici di ogni nazione filosovietica, che una dopo l’altro hanno abdicato dinnanzi all’ineluttabile fato riservato a qualcosa che vada senz’altro consegnato alla Storia, ma dismesso per sempre poiché non ha più posto nel presente, nell’oggi, nel futuro.
Tutto cambia in natura, ed è così anche per noi.
Quando è la gioia che scorre come linfa vitale di ogni rivoluzione, la pace è il susseguente aspetto che assume la forma del progresso.
L’anno successivo alla Caduta del Muro, alla riunificazione di Berlino, cioè di tutti noi che siamo, come detto, berlinesi, dinnanzi alla Porta di Brandeburgo prese vita qualcosa di magico.
Fu il concerto di Roger Waters, autore giustappunto di “The Wall” che, con omonimo evento di portata immensa, portò sul suo palcoscenico una nutrita quantità di ospiti internazionali e tedeschi, cantando in coro le note della libertà, ponendo fine, una volta per tutte, alla disumana ferita grigia e spettrale che divideva in due la città che oggi conosciamo come il simbolo della riunificazione: Berlino.
Con Waters si esibirono gli Scorpions (portabandiera simbolo della caduta del Muro, con l’eterna “The wind of change”), Cyndi Lauper, Thomas Dolby, Sinéad O’Connor, The Band, Joni Mitchell, Bryan Adams, Jerry Hall, Albert Finney, Van Morrison e Paul Carrack.
Questo concerto non fu rilevante solo dal punto di vista artistico, già di per sé stratosferico, ma per il suo impatto storico.
Per la prima volta a Berlino Est suonava, ballava, cantava, urlava, una folla di trecentocinquantamila persone libera semplicemente di farlo. Fu glorioso, unico e simbolico.
Perché da quel momento a Berlino Est non si sarebbero più viste parate con divise e missili, ma concerti rock dove gridare fino all’alba la parola libertà!!!
Andateci a Berlino, ad imparare cosa significa la sofferenza e quanto sia preziosa la gioia di essere, una volta per tutte, uniti. Sarà un’esperienza gratificante, che farà dire anche a voi:
Ich bin ein Berliner !