Il 12 Aprile 1963 fu una giornata particolare.
Quel giorno fui raggiunto presto da Robbie, non era nemmeno sorto il sole, ma io ero sveglio, pensando a tutto quello che era successo in questi ultimi mesi, divorato dall’ansia per quella unica e grande e sola conseguenza che sarebbe avvenuta proprio quella sera.
Non avevo chiuso occhio e data la tiepida aria, senza vento, umida e collosa, di quella nottata senza nome, rimasi seduto sul patio, sotto la tettoia di legno dipinto di bianco, accasciato come un rospo sulla poltrona di vimini scolorita e sfilacciata, comoda come un chiodo su per il culo, a bere una birra dopo l’altra per dissetare l’aridità della mia gola agitata, con le gambe indolenzite e la faccia da ebete. Credo che Robbie invece fosse andato a letto prestissimo, diamine: l’unico musicista al mondo che va a letto alle nove. Era un contadino, in fondo. Le sue radici, tra tutti noi, era davvero le più country. Quello che noi cantavamo e suonavamo era una suggestione, quello che componeva lui era esperienza. Dio, quanto ci è servito, col senno di poi.
Mi guardò di traverso, come per ammonirmi perché non ero sufficientemente riposato in un giorno solenne come quello. Io guardai lui altrettanto di traverso, ma perché avevo un torcicollo da cani. Mi tiro su e lui mi porge un foglio di carta: il ciclostilato! La locandina dell’evento! Tutto assumeva una certa dose di concretezza e prendeva piede la consapevolezza della realtà mentre il sole, pigro e inesorabile, sorgeva tra gli alberi là in fondo al giardino di casa di Zia Peggy.
Il cielo era viola, la mia lingua anche. Robbie, tra l’incazzato e il canzonatorio, mi detto un saccente buongiorno, come quello che davano i padri agricoltori del profondo sud al figlio testa di cazzo e fannullone. In un certo senso lo ero, anche se Robbie aveva tre anni più di me, era infinitamente più saggio. Era ed è ancora oggi il più responsabile di tutto il “Caravan”.
Ma quel giorno non contavamo niente ne io ne Robbie ne Mayflower ne Julie ne Scott e nessun altro: contava soltanto lui.
Come dicevo, ci eravamo sbattuti per tutto l’inverno per realizzare quello che stasera si sarebbe verificato, vero e impossibile al contempo come una cometa.
Avevamo fatto tutto l’umano possibile per coadiuvare quello che eravamo certi fosse il vero avvento. Perché nessuno, o pochi, avevano sentito quello che lui aveva scritto, quello che lui aveva da dire al mondo, quello che lui poneva al centro della questione.
Quale questione? Tutta la questione è una, cazzo!
E non sto parlando di Kennedy, non sto parlando di un senatore della Sud Carolina che improvvisamente si sveglia e siccome è battista allora Dio gli ha detto in un orecchio che i negri sono uguali ai bianchi e non sto neanche parlando di un brillante fenomeno di diciassette anni che fa home run a tutto spiano in un college a Atlanta.
No, sto solo dicendo che noi tutti abbiamo ascoltato le canzoni di Bob Dylan.
E stasera, per la prima volta, l’avrebbe potuto ascoltare il mondo.
Era difficile, quasi impossibile, convincere Bob a suonare davanti ad un pubblico. Restio, con un carattere di merda, per niente comunicativo. Un paradosso, no? Pensare a quanto abbia da dire su tutto, quanto sia capace di fare più proseliti di un pastore o di un rabbino, come era suo padre, e forse è proprio per questo che lui odiava esibire i suoi messaggi alla gente. Condividere non è mai stato nel suo stile; credetemi, era un casino avere a che fare con Bob.
Perché sentivi che il suo messaggio non poteva essere sprecato, dentro ad un garage, messo nelle mani solo di noi dieci stronzi, i suoi amici. Perché Bob non te lo puoi tenere tutto per te come amico, devi dividerlo col mondo; già a vent’anni quel ragazzino timido e antipatico era un bene dell’umanità.
Quel che scriveva, pensava, diceva, non solo ci rapiva politicamente, ma ci prendeva spiritualmente e ci portava letteralmente in cielo da un punto di vista musicale.
Noi altri, d’altronde, eravamo tutti musicisti e pure bravi. Lui? No, lui era un caprone, suonava di schifo e cantava peggio. Ma bastava sentire una parola, una frase, un concetto, Cristo, e rimanevi di stucco. Bob era il futuro.
Noi eravamo il pesante fardello del passato: country men, gente da sagra, suonatori di blues buoni per i locali con le puttane e i camionisti, produttori che avrebbero gestito meglio una stazione di servizio. Eravamo un baraccone di gente che aveva raccolto un fuggiasco del midwest sbarbato e incazzato, avvilito da una famiglia ebrea conservatrice e devastato dalla mente dei contadini, gli stessi contadini che cantavamo noi.
Eppure eravamo gente fresca, giovane, arrabbiata ma, questo Bob lo capì subito, eravamo gente concreta.
Lui aveva bisogno di personaggi come noi; noi avevamo disperatamente bisogno di un messaggero come lui.
Il profeta e i discepoli. I gregari e il campione. Il fieno il cavallo.
E’ così, dopotutto, che gira il mondo.
E grazie al cielo questo giorno è esistito, così che chiunque su questo pianeta, oggi conosce il verbo dell’uomo che viene Duluth.
Il suo cognome suscitava già di per sé le prese di culo di una folta schiera di pubblico; da queste parti, uno che si chiama Zimmerman va poco lontano, e se non rischia il linciaggio come un Jefferson o un Douglas, un afroamericano insomma, di certo va incontro ad un ostracismo notevole. Qui guardano a un ebreo come a una specie di insetto, gli fa senso alla gente. Pensano, come al solito, che sia un avaro, uno spione, un intrigante, una serpe. E guarda che io per primo ti posso dire che gli ebrei spesso sono una roba del genere, ma cazzo, eravamo degli hippie, non potevamo foderarci gli occhi di prosciutto e non vedere oltre la cortina di fumo dei pregiudizi di merda dei razzisti ignoranti, quegli stessi WASP che ci sputavano perché non volevamo fare il militare ed eravamo incazzati a morte con Wasghington e tutti quegli stronzi che stavano là seduti a mandare i ragazzi come noi in Vietnam o in Nicaragua o dovunque ci fosse puzzo di comunista.
E poi ci vedevano tutti come comunisti. Ma noi non eravamo mica comunisti, i comunisti erano altra gente, altre correnti, altri giri. Noi eravamo musicisti scazzati che fumavano marijuana e pensavano che il country fosse un tesoro nazionale, patrimonio di tutti, soprattutto di chi predicava la pace, perché lavorare i campi, veder crescere la verdura, porca troia, cosa c’è di più pacifico? il Sud è una fratellanza di uomini liberi, mica per forza deve essere quello stereotipo di fatto improponibile al giorno d’oggi di schiavisti e francesi sudici?
E invece, ragazzi miei, lo era. E infatti ci odiavano tutti. Anche se suonavamo delle canzoni del Milleottocentosettanta col violino. Perché insieme a quelle noi si conservava anche il repertorio gospel, spiritual, blues, di questo grande Sud. E avevamo due ragazzi afroamericani, due negri sì, proprio così, nella band! E come fai a fare folk se c’è un negro? Noi lo facevamo, e non ce ne fregava un cazzo!
Bob veniva dal nord, molto ma molto a nord, e spesso non riusciva a capire cosa significasse tutta questa importanza che davamo alle radici e neanche cosa cazzo ci potesse entrare il razzismo con la musica. Perché per lui il country, il folk, tutta la musica che aveva in testa, era una giusta mescolanza di un sacco di storia che aveva forgiato la sua comunità, lassù in mezzo alla neve e ai lupi e alle alci. E sì, anche in Minnesota avevano gli ebrei sulle palle, ma la libertà di pensiero è qualcosa di fondamentale. Quella è la terra dell’Harley Davidson, della velocità, della tundra, della caccia, del branco, dell’orso grizzly!
Quando rischi di morire di freddo probabilmente te ne freghi se uno è nero.
Bob, quando lo conobbi, con tutto lo spessore politico, tutto il fervore ideale che avevano i testi delle sue canzoni scritti su tutti quei fogliacci che si portava in giro, non aveva idea di chi fosse e che cazzo facesse Martin Luther King.
Lo aveva solo “sentito dire alla radio”; diceva robe tipo “quel tale che fa il predicatore, può darsi?” Lo giuro!
E noi, sbalorditi, gli facevamo sentire i suoi discorsi, gli facevamo leggere le sue lettere al Congresso, i suoi passi domenicali in chiesa. E a Bob questa cosa che fosse un uomo di fede gli andava giù fino a un certo punto. Pensare quanto avessero in comune e quanto, col senno di poi, Bob lo avrebbe stimato, sostenuto, apprezzato e infine pianto. Pianto come si piange un fratello.
Un fratello di una sola grande battaglia: quella per i diritti civili.
Questa locuzione che prese piede in tutta America e divenne la questione principale, forse il giusto e doveroso riassunto di una terra d’odio che cerca disperatamente di vivere d’amore. Noi eravamo pronti per fare da banda all’arrivo di tutto quel che avrebbe dovuto arrivare.
E arrivò come un destro di Joe Frazier.
Quella sera, montammo sul palco ad uno ad uno, lenti e maldestri, perché stavolta tutto era diverso.
Quella sera, salì Bob Dylan con una chitarra acustica e l’armonica a bocca sostenuta da un aggeggio che ricordava gli apparecchi dentali dei fine Ottocento.
Quella sera lui aprì bocca e intonò con la sua pessima voce, che per poco si sentiva con quell’impianto di merda, le prime parole del più lungo poema del Novecento: il canto della libertà.