Affrontare l’argomento “libertà” è sempre affascinante e ben calza con gli intenti di Vuemme; giacché quest’oggi moriva Abramo Lincoln, la faccenda si farebbe facile. Ma di emancipazione della schiavitù abbiamo già dibattuto e ulteriori discese nei tortuosi rivoli, affluenti del Grande Fiume Americano, ci porterebbero ad un naufragio nell’ansa profonda della retorica. Oltretutto, se insisto a straparlare di storia a stelle e strisce, sarò presto fustigato dall’editore. Guardandomi attorno, in questo glorioso tardo mattino del 15 Aprile, sigillato sotto coperta causa clausura pandemica – e questo sì, un giorno sarà materia storica di cui disquisire a lungo – scorgo tra i volumi della mia ormai ridottissima e striminzita libreria “La Nausea” e “Esistenzialismo è un umanesimo”, i capisaldi della responsabilità umana annichilita dal pessimismo: Jean Paul Sartre. Perché oggi, trapassava anch’egli.
Osare tanto da intraprendere una digressione filosofica sull’esistenzialismo? Scomodare l’Abbagnano? Collegare le correnti di pensiero allo sviluppo della contestazione e creare dunque un nesso tra musica e ragion pura? Potrebbe anche darsi ma è oltraggioso a dir poco. In buona sostanza, poi, ho come al solito il mal di testa – la cervicale domina il mio raziocinio – e si avvicina pure l’ora di pranzo, per cui, chi vogliamo prendere in giro?
Non ho intenzione di tediare con imprecisioni e lacunose dissertazioni il candido e pregiato pubblico di Vuemme; ho troppa stima di voi e una bassissima considerazione delle mie capacità critiche ontologiche.
Ciò nondimeno sono tre giorni che mi arrovello il gulliver (citazione, apprezzate, grazie) cercando di comprendere cosa scrivere, su quale piatto del giorno avventarmi e mangiarne tutto il succoso contenuto; la musica ha bisogno di una collocazione e i fatti hanno bisogno di una colonna sonora. Di nati e morti ci siamo francamente un po’ stancati; fiction e narrativa, non è il posto giusto; di cosa avete bisogno? Dopotutto questo è un servizio, al vostro servizio.
Ma certo! Che mentecatto, che sono! Avete bisogno di uscire, viaggiare, contemplare la bellezza! Quasi sessanta giorni chiusi tra le mura domestiche e l’unica sortita concessa è verso quei rettangoli di cemento armato pieni di scaffali e merci, dove comprare provviste.
Indi per cui, necessitiamo di un ampio respiro.
Scrivo di natura selvaggia? Effettivamente vivo in campagna (salvezza) e sono circondato da pinete, canneti, fiori spontanei meravigliosi, prode coltivate, acacie, noci, querce, abeti e cipressi. La Toscana, specie vicino ai fiumi, in mezzo alle colline, possiede una biodiversità straordinaria.
Ma non ne so abbastanza di flora e fauna per poterne cogliere tutte le sfumature.
Allora cosa vorremmo? Indubbiamente, visitare una città d’arte e gustarne le ricche pinacoteche, nutrire l’anima.
Ecco cosa faremo: un bel viaggio in una mostra d’arte.
Non una mostra qualunque, però; si tratta di un vernissage avvenuto nel 1874, precisamente il 15 Aprile del 1874…
Il nostro viaggio nel tempo ci porta tra le vivaci e frenetiche vie di Parigi, nel bel mezzo di un fermento artistico e culturale tra i più significativi di ogni tempo. Come fossimo a cavallo di una rondine, scendiamo in picchiata tra i bassi tetti, vicini e sporgenti, delle stradine secondarie, lasciandoci alle spalle la magnificenza dei boulevard e delle piazze imperiali adorne di bottini di guerra napoleonici, tra statue greche e obelischi egizi, trafugati con la potenza del fuoco francese; ci avviciniamo alla Senna e i quartieri si fanno stretti e intimi, colorati e pittoreschi, densi di ispirazione cromatica e visuale: atterriamo in Rue des Capucines, e ci dirigiamo, tra gli originali cappelli delle signore e le bombette dei signori, al civico 35.
A questo indirizzo corrisponde la bottega d’arte di un innovatore, un folle, un pioniere: è lo studio di un fotografo. Ad oggi è impossibile immaginare quanto scalpore destasse tale figura, ammantata di magia ed esoterismo; colui che fissa le anime, i ricordi. Il maestro delle sabbie del tempo. Immaginate un personaggio di grande professionalità, munito dei più sofisticati strumenti tecnologici dell’epoca, proiettato in un avvenire di movimento e dinamismo, al contempo ricolmo di immaginazione e speranza, tormento ed estasi, come il più scafato dei pittori: ecco, forse, ma dico forse, come poteva apparire un fotografo all’epoca. Oppure un pazzo, un sognatore: “egli delira”, si sarebbe detto nei bistrot frequentati da coloro che continuavo degnamente ad utilizzare pennello e tavolozza. Non era però il caso di questi signori e soprattutto del padrone di casa, al numero 35 di Rue des Capucines: si tratta di Nadar, ed è già un uomo di successo. Piace alle donne, farsi ritrarre con questo nuovo sistema, e lo pagano fior di quattrini. Piace a tutti i suoi colleghi, perché lui, viepiù scaltro, anziché denigrare la pittura, la sostiene, specie in quell’avanguardia, in quella possibilità estrema, che rappresenta la sua cerchia di amici, tra cui spiccano professori di grandi accademie ben mecolati ai peggiori loschi figuri da bettola: la Societé Anonime.
Ed è chiaro fin da subito che ognuno vorrà emergere come singolo maestro, eversore, eretico, innovatore; unico rappresentante di quella corrente che presto sarà storia e che ora sorprende, illumina, sovrasta, come una forma astratta di concretezza, come il fugace scatto di un attimo, come un gesto per ritrarre con estrema sintesi il momento e cosa possa significare quando viene percepito dal nostro occhio.
L’impressione .
Ecco l’obiettivo, il fine ultimo dell’accolta di artisti che si propone al pubblico quel 15 Aprile.
E’ l’ora del Pastis, di un uovo sodo e di una camminata pomeridiana, per sgranchirsi dal lavoro e prepararsi ad una degna cena o ad una debordante e decadente nottata di vizi, obnubilando la mente. In questo dolce limbo chiamato aperitivo, si varca incuriositi la soglia di un vernissage che profuma di nuovo, ma che lascerà gli avventori ben più che sbalorditi.
Capitanati da Claude Monet, già arcinoto in tutta la Francia, che porta al suo seguito tre realizzazioni mozzafiato, (Boulevard des Capucines, I papaveri di Argenteuil e, neanche a dirlo, Impressione: levar del sole), seguono in questa impresa – vero e proprio spartiacque dell’arte moderna – Paul Cezanne, Edgar Degas, Giuseppe De Nittis, Jean-Baptiste-Armand Guillaumin, Berthe Morisot, Camille Pissarro e Pierre-Auguste Renoir e Alfred Sisley.
Soltanto dai nomi, potete facilmente immaginare quale portata abbia avuto questo evento in tutto il mondo e per tutte le generazioni pittoriche avvenire.
Quel pomeriggio nacque la corrente dell’Impressionismo e la prima pennellata gestuale ed emotiva venne donata all’arte moderna.
Guardando la sfocatura, il tratto accennato, la moltitudine di colori in apparente contrasto, la voluta approssimazione dei volti, delle mani, delle sagome, la smussatura accennata di ogni singolo elemento, si comprende il significato che costoro vogliono trasmettere: l’impressione, appunto.
Si chiamano impressionisti e stravolgono l’ordine costituito dell’accademica forma d’arte figurativa, ponendo la grande domanda: che cosa percepisco io? Cosa il mio occhio vede? Non può certo cogliere i dettagli di ciò che è lontano, o in penombra, o ancora controluce, ma certo! Vedo una macchia, un cenno, un’ombra, un insieme di figure che non sono troppo distinte, in verità, ma che rappresentano, per la mente che percepisce, ciò che infine vedo. Ed è la realtà percepita, appunto, il fine ultimo.
Perché nel mondo sta arrivando la fotografia e Monet, Cezanne, Renoir e tutti coloro che, in un modo o nell’altro, in giro per il mondo, hanno compreso l’entità di questa invenzione, si rendono conto che il futuro della pittura è dentro di noi, non intorno a noi.