Spiazza scoprire che Mario Tobino, non di certo uomo di chiesa, rimase a tal punto affascinato dal Cristo di San Michele da recarsi più e più volte dinnanzi alla lignea figura densa di sacro a riflettere sul senso stesso della spiritualità.
Ce lo racconta lui stesso, figura emblematica della medicina psichiatrica e simbolo luminoso della città di Lucca, tra le pagine dei suoi scritti, letti ad alta voce nell’eco risuonante di ricordi solitari e inconfessati nella cappella ricavata tra le mura dell’ex manicomio di Maggiano, la sua “casa”, nell’epoca più complessa e buia della salute mentale, laddove egli si adoperò fino ad entrare nei più profondi aspetti della vita di ogni degente, attraverso la sua geniale modernità soppesata dalla sua umana empatia oltremodo colma di rispetto e “pietas” romana.
Sospinti ed accompagnati dal Dottor Enrico Marchi, la visita narrata tra le mura di Maggiano, resa possibile grazie all’immenso lavoro quotidiano svolto dalla Fondazione Mario Tobino, è un connubio perfetto tra interesse e riflessione, un viaggio tra passaggi storici fondamentali per meglio addentrarsi nella conoscenza della struttura ormai chiusa da più di vent’anni e quel necessario senso di solitudine, silenzio assordante, piena consapevolezza nel perdersi, che ogni giorno affliggeva i pazienti e chi vi lavorava. “Perché se non si è pazzi, in un manicomio ci si diventa”, così recitava Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo“, ed è lapalissiano come il lato emotivo sia coinvolto a tutto tondo e lacerato fino all’abisso, quando si risiede, magari per tutto il resto della propria vita, all’interno di un istituto psichiatrico.
L’occasione unica è stata quella di poter aggirarsi tra le sale rimaste agibili di Maggiano prima dell’inizio della visita guidata; da soli è tutta un’altra cosa rispetto ad essere in quaranta persone, benché accompagnati da performance rievocative davvero di prestigio e degne di nota, tra esibizioni drammatiche e musica che hanno colpito il cuore degli astanti.
Sono le prime ore del mattino e oltrepasso la soglia che separa il presente dal passato, l’intatto dal distrutto.
Dapprima un chiostro, con al centro un pozzo, rivela le origini monastiche di questa immensa e devastata struttura; origini confermate dall’adiacente ingresso alla chiesa di cui accennavo poc’anzi, laddove ore dopo sarà letto il passaggio ecumenico di Tobino.
Ancora è lontana la disperazione, lo spettro immortale della memoria che si aggira tra i meandri di Maggiano; per raggiungere quel frastuono di donne e uomini spezzati dalla malattia oscura devo andare oltre, raccogliere tutta la forza che scaturisce dalla profonda volontà di conoscere propria dell’essere umano, e passare sotto la scritte ancora intatte – indelebili segni – “Divisione Maschile” e “Divisione Femminile”.
Sono due aree speculari, di cui possiamo percorrere solo una ristretta parte, ma tanto basta per rendersi conto di quanta umanità e dolore risiedesse tra quelle stanze. Un freddo gelido che ancor più si fa sentire a causa della suggestione tipica suscitata in ogni luogo in stato di abbandono, complice narrativo dei propri pensieri.
Mi chiedo cosa fosse. Quando infermieri e dottori camminavano tra i corridoi, mentre i degenti cercavano di dare un senso di apparente normalità alla propria esistenza, seduti a giocare a filetto o a dama sui muretti dei chiostri, oppure a prendersi un caffè nel centro sociale e ricreativo, un vero e proprio circolo, che oggi è distrutto e chiuso alla mia vista da serrande spesse e scure, proprio come quelle che calano nella mente di chi è imprigionato dalle patologie psichiatriche.
Dinnanzi a me, un cinema teatro; quasi da non crederci: più di cento posti a sedere, un palco, un telo e la sala proiezioni. E’ così immobile, così silenzioso e una debole luce filtra dalle finestre adorne di ragnatele, armate di grate invalicabili, ingenerose e beffarde con la loro illusione di far vedere il mondo esterno, senza poterlo toccare.
Un manicomio è un acquario, una versione distorta ma davvero molto simile alla vita di ognuno di noi: fin troppo.
Risalgo le scale e imbocco la “Divisione Femminile”. Non riesco a spiegarmi il perché, forse dovuto agli scritti di Tobino, questo settore mi risulti più sinistro e opprimente dell’altro. Non è una questione di genere, bensì di ricordi. Il luminare lucchese ha raccontato molto di più delle “donne” di Maggiano, ed esse, per chi conosce la storia di quei luoghi o per chi è conterraneo, come me, sono quasi “famose”.
Una su tutte Annamaria: la cantante di cui in seguito i performer ci regaleranno una sua canzone struggente, recuperata dagli archivi della Fondazione.
Perché è noto il leit-motiv “genio e follia” e che ci piaccia o no sovente è realtà, non solo banale luogo comune. Perché l’arte è un salvavita, perché la sensibilità di chi ha qualcosa in più sfocia nel tormento, perché chi percepisce l’estasi inevitabilmente capta ogni nota amara del mondo, schiacciandolo nella morsa della solitudine, dell’incomprensione, infine della pazzia.
E’ un universo inesplorato, la malattia mentale. Il confine tra “diverso” e “malato” è così labile, a tratti sovrapposto, sfocato e di difficilissima comprensione.
Anche per Tobino. Egli si lasciava rapire dalle emozioni che in ogni momento potevano scaturire dalla presenza di queste umanità recluse, di queste anime inquiete: come il Meschi che, inselvatichita creature errante tra i boschi dell’alta Versilia, nei giorni degli anni sessanta si aggirava silente tra le scalinate e gli anfratti di Maggiano, ricoverato e spaesato, sperso e muto. Dal niente compariva con un sassofono in mano e da quello strumento sortivano note splendide, profonde e penetranti. La meraviglia celata. Il mistero di cosa ci fosse dentro di lui, nelle trame della sua mente.
Nel settore femminile si può ancora osservare intatta una serie di bagni, così umilianti e spersonalizzanti, così disumani. E accanto, una piccola camerata ricavata in una stanza alta a diafana. Ci sono ancora letti, materassi, un armadietto, uno specchio; lontano parente, ingiurioso e bugiardo, della femminile vanità perduta.
Chi si specchia è coraggioso.
Esco e giungo alle scale narrate da Tobino ne “Le Libere Donne di Magliano”, chiuse là in fondo da un muro, eretto per non poter più raggiungere il resto della divisione, poiché inagibile e prossima al crollo. Sembra di più una metafora o un amaro ammonimento: non andate oltre. E’ in cima a questa scala che scopro come le chiamavano: tranquille, semi-tranquille, agitate.
Tutti sappiamo cosa toccava alle agitate : l’elettroshock; la stanza all’alga; una fine senza fine.
Passando attraverso uno stanzone che al tempo doveva riprodurre una cupa parodia di una sala ricreativa, lasciandomi alle spalle una parete completamente coperta da una fittissima sequenza di quadri dipinti dai pazienti (alcuni dei quali notevoli, fatto di cui ero certo fin dall’inizio), entro nelle cucine.
Un luogo dove il tempo si è fermato, come se ancora si percepisse il suono delle stoviglie che battono l’una con l’altra, nella febbrile attività di preparazione del desinare per più di mille persone.
Sì, erano davvero così tanti.
Prima, quella sala dalle dimensioni impressionanti, altissima sotto la sua cupola a vetri ancora miracolosamente intatta, era un’area destinata all’idroterapia e alla bagnoterapia; così ci racconterà nella visita il Dottor Marchi.
Oggi la vedo e mi ricorda le cucine di una nave affondata.
Bollitori enormi, fornelli, acquai, impastatrici, forni. E’ ancora tutto lì, coperto da una coltre di polvere grigia, custode di una memoria impossibile da rimuovere.
E’ tutto sommerso .
Immobile, ferma, imponente. Una cucina così, che nella sua interezza rappresenta la figura della malattia mentale meglio di cento volumi di medicina psichiatrica.
Le piastrelle blu, il pavimento lavabile che sembra un enorme mosaico informe.
E’ giunto il momento di uscire, perché inizia il percorso narrato.
Esco, respiro, penso.
Guardo da fuori questa immensa creatura vetusta e sofferente, ferita e silenziosa.
Maggiano è un testimone, e ogni pezzo di sé racconta la memoria piena di dolore di chi, ogni giorno e ogni notte, urlava da quelle false finestre la propria identità violata, nel gelo della reclusione, inghiottito dalla sola colpa di essere malato.
Un malato diverso, scomodo, inopportuno. Un malato da nascondere ad un’Italia che forse, ancora oggi, non è pronta ad accogliere nel suo tessuto sociale chi soffre di una patologia psichiatrica.
Un’Italia popolata da persone che devono conoscere e tramandare la storia di Maggiano, nella speranza che un luogo del genere non sia destinato a quella fine ineluttabile ormai prossima e tristemente imminente.
Là, tra quelle mura, deve arrivare la vita. E’ un regalo che dobbiamo fare a noi tutti, come comunità, e un pensiero doveroso nei confronti di ogni anima che ha soggiornato in quelle stanze combattendo i suoi incubi.
Che non abbiano combattuto invano.