Ritorno a Mendips

Soltanto a Manhattan il freddo non è imparziale e democratico; qui la spaccatura è evidente, con quell’aria di festa e allegria che scorre tra le strade ricolme di persone indaffarate e apparentemente felici, intente a celebrare un rito natalizio reciproco e al contempo individualista, sottomessi al consumismo estremo proprio delle festività, e le interminabili file di senzatetto, coperti da cartoni e nylon, sotto ai ponti, invisibili e riscaldati da bidoni in fiamme, ignari di ciò che potrà essere l’indomani e respinti dalla giostra della società, scaricati e inermi, dall’occhio vitreo e impassibile dinnanzi all’ennesima notte che probabilmente se li porterà via, congelando i loro cuori.
In questo impari tessuto urbano, verso le dieci e mezzo di sera, un ragazzo corpulento e taciturno, ombroso e schivo, si muove di fretta e con fermezza risoluta; sale sulla metro, la linea blu, che porta all’Upper West Side, si siede, guarda fisso nel vuoto.
Scende alla fermata, monta la scala mobile saltando gli scalini a due a due, esce colpito da un’aria gelida e umida, tagliente e densa; cammina e si ferma davanti ad un complesso residenziale di una certa eleganza, anche se austero e spoglio, fin troppo moderno, attaccato al quale si palesa una targa di ottone con su scritto: Dakota Buliding.
Se ne sta lì, immobile, incurante del ghiaccio che gli intorpidisce le mani nude, senza guanti, gli occhiali spessi che nascondono qualsiasi espressione, qualsiasi intento.
Non c’è nessuno o quasi, la strada è deserta e da un angolo spunta una coppia a braccetto; da lontano sembrano due gemelli.
Sono vestiti in maniera molto simile, avvolti in un cappotto scuro lungo e avvitato, stivaletti e jeans, capelli lunghi che lisci come seta escono da due cappelli di lana, portano occhiali tondi, una montatura semplice e classica. Si avvicinano all’ingresso del Dakota Building chiacchierando sereni, sono un uomo e una donna. Ora che sono più vicini al ragazzo, si nota come la donna abbia lineamenti asiatici, mentre lui, passo dopo passo, si riconosce come quel tipico inglese alto e snello, dal naso adunco e lo sguardo sognante, che somiglia in tutto e per tutto all’uomo che il giovane sta cercando, forse da tutta una vita.
“Ehi, John”.
L’inglese si volta, si distacca dalla compagna, le dice di aspettare un secondo, e si avvicina di qualche metro al ragazzo, che da una tasca tira fuori una pistola e gli spara cinque colpi, colpendolo quattro volte, tanto basta per mandarlo al creatore.

Sono le 22:51 dell’8 Dicembre 1980 e John Lennon è morto.

Il giovane si siede su una panchina e impassibile attende l’arrivo degli inutili soccorsi e della polizia, che lo troverà intento a leggere il Giovane Holden.
Non avrà alcun problema a confessare, rimarrà chiuso in un inviolabile e cupa indifferenza, sarà prostrato all’ineluttabile sentenza, per qualcosa di cui non si pentirà ma e che non sarà mai sufficiente a colmare quel bisogno malato di voler essere come John Lennon, alla sua altezza.
Perché Mark David Chapman , venticinque anni, non poteva sopportare il fatto di sentirsi uguale a Lennon, identico a Lennon, forse perfino più sensibile di Lennon.
Nella sua mente la differenza tra lui e l’ex Beatle era iniqua come quella che divide i benestanti dagli indigenti sotto il freddo di New York.
Perché John Lennon era il simbolo della pace, della musica, della poesia mondiale, un eroe agli occhi di milioni di persone, un esempio di tolleranza e coesione, il genio indiscusso da più di vent’anni, sempre rinnovato e innovatore, accompagnato da una vita perfetta fatta di impegno e solidarietà umana, mentre lui era solo e soltanto un ragazzo qualunque, solo e rifiutato dal cosmo, involuto e frainteso, incompreso nella sua battaglia, nella sua arte, frutto di una sensibilità identica a quella di Lennon?
La risposta è semplice: in quel caso non c’era ingiustizia, ma soltanto un abisso tra due uomini in realtà diversissimi e mai più distanti di così.
E non perché Lennon fosse un artista straordinario e l’altro invece un mediocre e insulso ragazzo disturbato; non perché l’uno avesse avuto un successo interplanetario e vivesse al Dakota Building con Yoko Ono e l’altro si barcamenasse per mettere insieme il pranzo con la cena; niente di tutto questo.
Il motivo è che John Lennon non avrebbe mai ucciso nessuno. Mai.
E Mark David Chapman, invece, era un assassino.
Feroce, spietato, disumano, come tutti gli assassini.

Nessuno può sapere a cosa abbia pensato John Lennon negli ultimi istanti della sua vita ma di certo sappiamo dove ogni giorno la sua mente brillante e visionaria andava a posarsi dopo gli interminabili voli nel cielo dell’arte e della musica.
Il cantautore di Liverpool, per riposare le meningi, tornava sempre da Zia Mimi, a “Mendips”, la prima donna che gli ha voluto bene, dopo troppo tempo, dopo un’infanzia terribile, passata lontano da due genitori che non l’hanno mai voluto, desiderato, amato. Sembra impossibile ma è così, il padre se ne rimase in Nuova Zelanda e la madre, fatto ritorno a Liverpool, decise di non poterlo (o volerlo) tenere.
Lennon stesso spiega che una tale mancanza di affetto così lacerante abbia contribuito in maniera fondamentale al suo luminoso futuro da star.
Disse:
«Il dolore più grande è non essere desiderati, renderti conto che i tuoi genitori non hanno bisogno di te quando tu hai bisogno di loro. Quando ero bambino ho vissuto momenti in cui non volevo vedere la bruttezza, non volevo vedere di non essere voluto. Questa mancanza di amore è entrata nei miei occhi e nella mia mente. Non sono mai stato veramente desiderato. L’unico motivo per cui sono diventato una star è la mia repressione. Nulla mi avrebbe portato a questo se fossi stato “normale”.»
Zia Mimi invece lo accolse, lo comprese, gli dette quel tipo di amore di cui un’anima come la sua aveva più bisogno: il sostegno. Fu lei ad iscriverlo alla scuola d’arte di Liverpool, ad incoraggiarlo a scrivere poesie, a lasciargli lo spazio vitale necessario alla propria creatività, a dargli la possibilità di ascoltare il rock’n’roll, infine a regalargli un’armonica e una chitarra: gli strumenti per compiere il suo destino.
John, a quindici anni, scoprì la musica di Elvis e di Little Richards, di Buddy Holly e di Jerry Lee Lewis, e rimase folgorato dalla mistica rivelazione della musica.
Il verbo del rock scorreva ora nelle sue vene, era illuminato e pronto, poteva adempiere alla propria missione, lunga una vita: regalare emozioni.
E così fu, perché il resto è storia e la conosciamo tutti.
Ma tutto è cominciato in quel caldo salotto da Zia Mimi, con i biscottini e un Tea, nel caldo abbraccio di Mendips, dove John trovò l’amore di cui tutti abbiamo bisogno.

All you need is Love
JOHN LENNON
9 Ottobre 1940 – 8 Dicembre 1980



Mendips

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